È possibile lottare contro i tumori anche senza le strutture sanitarie e le risorse che esistono nel Nord del mondo. Silvia Franceschi guida l’Infections and Cancer Epidemiology Group presso la International Agency for Research on Cancer a Lione (IARC), centro che si occupa di estendere anche ai Paesi più poveri i progressi nella ricerca sulla lotta ai tumori. Una sfida che può partire dalla prevenzione: “I vaccini – spiega Franceschi al sito di Aspen – offrono una soluzione semplice per prevenire una quota di tumori, soprattutto nei Paesi più poveri dove circa un quarto di queste patologie ha un’origine infettiva”.
Lei guida dal 2000 l’Infections and Cancer Epidemiology Group allo IARC. Di cosa vi occupate e quali sono i vostri obiettivi?
Il centro si occupa di ricercare le cause dei tumori, ma possiamo dire che, in senso più ampio, il nostro obiettivo è l’equità: siamo stati creati, infatti, per far sì che i progressi nella ricerca sul controllo dei tumori non siano limitati alle nazioni più ricche. Abbiamo un mandato specifico per studiare i tumori nei Paesi in via di sviluppo e, anche per questo, il nostro lavoro riguarda soprattutto la prevenzione: dove le risorse sono limitate prevenire i tumori è molto più conveniente che sperare di portare trattamenti estremamente costosi. In particolare, bisogna ricordare che 16% dei tumori nel mondo è causato da virus e batteri e che questa percentuale raggiunge il 33% in Africa.
Esiste un metodo efficace di prevenzione per i tumori causati da infezioni?
Ne esistono parecchi. Il controllo delle trasfusioni e l’uso di siringhe mono-uso evita la trasmissione di importanti virus cancerogeni (ad esempio virus dell’epatite B e C, ed HIV); l’uso del preservativo ed i moderni trattamenti antiretrovirali diminuiscono la possibilità di acquisire l’HIV per via sessuale; lo screening per il tumore della cervice uterina impedisce che un’infezione da papillomavirus (HPV) si trasformi in un tumore del collo dell’utero. Per le nuove generazioni, però, noi crediamo molto nei vaccini che impediscono di infettarsi con virus cancerogeni. Attualmente possediamo due vaccini molto importanti: quello contro l’epatite B e quello contro il papilloma virus, rispettivamente per prevenire la maggioranza dei tumori del fegato e del collo dell’utero. Le vaccinazioni sono fattibili anche in Paesi con servizi sanitari limitati. Nel nostro lavoro è necessario che gli interventi di prevenzione siano semplici ed economici e, quindi, disponibili a tutti, rispettando un criterio di equità.
Qual è il contributo dell’Italia al vostro lavoro?
L’Italia è stato uno dei cinque Paesi fondatori della IARC e io, anche per questo, non mi considero in senso stretto una persona che lavora all’estero. Inoltre guido un gruppo di una quindicina di persone in cui i ricercatori italiani sono ben rappresentati. Un po’ diverso è il discorso per quanto riguarda la ricerca: in Italia ci sono stati indubbiamente alcuni pionieri nell’epidemiologia dei tumori, ma trattandosi di una disciplina ancora giovane – e a cavallo di due branche che sono la cosiddetta igiene e la bio-statistica – continua ad essere abbastanza poco rappresentata nell’organizzazione dell’università italiana e sostanzialmente sottofinanziata.
È possibile alimentare in Italia la ricerca in questo campo? Come fare?
Sì, ma per attirare talenti verso l’epidemiologia ci vuole la disponibilità di materia prima, e cioè di buoni dati sanitari e informazioni sullo stile di vita della popolazione. La chiave è mettere a disposizione dei ricercatori questi dati oppure fornire loro finanziamenti che permettano di raccogliere loro stessi le informazioni necessarie. E l’Italia ha ormai un sistema sanitario di buon livello, ma purtroppo dal punto di vista dell’accessibilità delle statistiche sanitarie – ad esempio mortalità, incidenza delle malattie, registri dei tumori delle dimissioni ospedaliere – c’è ancora molto da fare. Esistono, infine, anche problemi burocratici e di confidenzialità che si dovrebbero risolvere al più presto.