La globalizzazione, intesa come progetto politico ed economico fondato sulla supremazia del mercato globale rispetto agli Stati e ai cittadini, attraversa oggi una crisi profonda. Il mondo appare sempre più frammentato, segnato da nuove forme di conflitto — militari e commerciali — che testimoniano la rottura dell’ordine precedente. Sono gli Stati Uniti tra i principali motori di questo cambiamento: il paese che ha guidato i processi di integrazione commerciale, traendone ampi benefici soprattutto nei settori tecnologico e finanziario, è oggi attraversato da un diffuso malessere sociale. Ne è scaturita una reazione politica profonda, che ha inaugurato una nuova fase storica.
Ma non si tratta di un fenomeno esclusivamente americano. A livello mondiale, il susseguirsi di crisi e l’inadeguatezza delle risposte adottate hanno minato il consenso attorno all’ordine economico costruito a partire dagli anni Novanta. Si torna così a discutere di nuove regole globali, capaci di accompagnare la transizione dalla crisi del free trade alla costruzione di un fair trade più equilibrato.
Per affrontare questa sfida, è necessario interrogarsi sulle tensioni che attraversano il capitalismo contemporaneo. Da un lato domina il paradigma di un “tecnocapitalismo” alimentato da dati e intelligenza artificiale; dall’altro, l’applicazione di tecnologie avanzate alla manifattura può avviare un processo di reindustrializzazione nelle economie mature. In questo scenario, i settori della difesa e delle infrastrutture assumono un ruolo centrale, anche grazie al ritorno della mano pubblica nell’economia. In un’epoca segnata dalla disgregazione, il ruolo degli Stati resta cruciale, soprattutto nella costruzione di una nuova architettura di cooperazione globale capace di affrontare disordine e disuguaglianze.
I piani di reindustrializzazione sono centrali anche rispetto alla prospettiva di un decoupling tra Cina e Occidente: uno scenario che prevede l’innalzamento di barriere e la riduzione delle interdipendenze, ma che si scontra con la realtà di filiere produttive ormai profondamente integrate. In questo contesto, la costruzione di un nuovo modello più flessibile e adatto all’incertezza globale potrebbe fondarsi su una “geometria variabile” del commercio internazionale: un impianto di regole minime valide per tutti, affiancato da accordi regionali o plurilaterali tra paesi volenterosi. Con gli Stati Uniti sempre meno centrali nel sistema multilaterale, si apre per l’Europa l’opportunità di assumere un ruolo più rilevante.
Per non sprecare questa occasione, il Vecchio Continente deve interrogarsi sul proprio modello economico. Nel confronto con due sistemi oggi più competitivi — quello statunitense e quello cinese — emergono con forza i limiti dell’Europa, a partire dall’eccessiva regolamentazione comunitaria. Un fenomeno che genera rigidità del mercato del lavoro e bassi investimenti in innovazione.
La chiave per recuperare competitività passa proprio dall’innovazione, con un’attenzione non solo alla scienza applicata, ma anche a quella di base, da sempre motore fondamentale del progresso. Questa bussola deve orientare anche uno dei pilastri dello sviluppo europeo: la transizione verde, che va affrontata con meno burocrazia e maggiori investimenti innovativi. Le competenze scientifiche non mancano, e le opportunità per stimolare la ricerca sono numerose; servono però politiche capaci di attrarre capitali e talenti — una sfida resa ancora più urgente dall’invecchiamento demografico.
Un altro nodo critico è la dipendenza dell’Europa dalle esportazioni: un modello fondato sul surplus commerciale ha comportato una riduzione degli investimenti interni e si rivela oggi un limite in un mondo sempre più orientato al protezionismo. Serve un ripensamento strategico: rafforzare la domanda interna, trattenere i capitali, promuovere gli investimenti. Solo così sarà possibile garantire maggiore autonomia strategica in un contesto geopolitico turbolento.
Il dibattito sul futuro del capitalismo, tuttavia, non riguarda solo le economie occidentali. In un mondo segnato dal progressivo disimpegno degli Stati Uniti dalla leadership globale, la Cina rimane un attore centrale. Il suo sistema sfugge alle categorie tradizionali: è al tempo stesso un paese in via di sviluppo, un attore sistemico e un rivale strategico dell’Occidente. Le sue scelte in materia di allocazione del capitale, interne ed esterne, hanno rilevanti implicazioni globali. La Cina si colloca in una posizione intermedia tra statalismo e mercato, combinando controllo pubblico e capacità di innovazione, soprattutto nei settori ad alta tecnologia.
Per comprendere le dinamiche attuali è utile rileggere i cicli storici, di breve, medio e lungo periodo. Il modello cinese può essere definito come un “capitalismo tecnologico di Stato”, in cui produzione avanzata e innovazione rispondono anche a logiche strategiche e militari. Si tratta di un modello peculiare: forte intervento statale, dinamismo del settore privato, debolezza del welfare. A differenza di altri paesi asiatici come Giappone, Corea o Taiwan, la Cina opera su scala ben più ampia, influenza i mercati globali, mantiene un controllo pervasivo e non ha avviato processi di democratizzazione. Il consumo interno, ancora limitato rispetto al PIL, riflette una persistente vocazione produttiva, considerata un vantaggio competitivo nella rivalità con gli Stati Uniti.
L’economia cinese è profondamente cambiata con la globalizzazione e ha contribuito in modo decisivo agli squilibri globali. Anche per questo, in un contesto segnato dalla crisi del paradigma neoliberista, dal ritorno dello Stato come attore economico e dalla necessità di un nuovo ordine internazionale, non si può prescindere da Pechino nella costruzione di un assetto mondiale più inclusivo e stabile.