La competitività e lo sviluppo del tessuto imprenditoriale italiano passano per il nodo fondamentale della crescita. Questa non deve essere solo dimensionale, ma di visione, garantendo un rinnovamento culturale che permetta alle aziende di cogliere e affrontare i cambiamenti profondi del quadro economico globale.
Uno dei principali vettori di cambiamento è la transizione digitale, campo in cui il tessuto italiano presenta luci e ombre. Le piccole e medie imprese sono in linea con le omologhe europee per livello base di intensità digitale, ma sono deboli dal lato dei big data e dell’intelligenza artificiale. Il principale ostacolo è costituito dalla mancanza di know how, con la dimensione aziendale che provoca difficoltà nell’accesso a competenze e talenti.
Altri fattori dimostrano che la strada italiana verso il capitalismo innovativo è ancora lunga: il Paese, ad esempio, rimane primo per investimenti in macchinari, ma presenta dati molto bassi negli asset intangibili. Certo, l’Italia ha anche punti di forza importanti da cui partire, con storie di crescita che possono servire da esempio e devono essere messe a sistema. Mentre l’economia nazionale si conferma, negli ultimi quattro anni, il più importante esportatore dell’eurozona, con una crescita dell’8,5%, si va affermando un quinto capitalismo che è evoluzione positiva del quarto, caratterizzato dai distretti vocali all’export e dalle multinazionali tascabili. Le aziende del quinto capitalismo puntano sulla presenza diretta in diversi mercati internazionali, con filiere capaci di trainarne la crescita estera; in questo sforzo manifestano una più marcata apertura verso i mercati finanziari rispetto al canale tradizionale del credito bancario.
Eppure, questi punti di forza compongono un quadro di piccole nicchie di mercato che rischia di essere troppo frammentato per trainare il Paese nelle grandi trasformazioni tecnologie e industriali del futuro. Nella rivoluzione degli assetti organizzativi e finanziari in atto, solo la capacità di rinnovamento può mettere le aziende in grado di affrontare le grandi sfide future.
Le nuove imprese sono quelle maggiormente indicate a risolvere i problemi emergenti. L’Italia, però, si misura con un “decennio perso” negli investimenti in innovazione, visto che dallo scoppio della “bolla” internet fino alla normativa sulle start-up del 2013 si è smesso di investire in nuove tecnologie. La rimozione di una serie di ostacoli burocratici e normativi — insieme all’introduzione di attori istituzionali capaci di sostenere il settore del venture capital — stanno ridando fiato al comparto delle start-up che, pur mantenendo il ritardo, ha ripreso un ritmo comparabile a quello degli altri concorrenti europei. Rimane sullo sfondo un problema continentale: l’Europa ad oggi è un grandissimo esportatore di tecnologia in cui mancano aggregatori e consolidatori. Pur a fronte di investimenti che non sono secondi a nessuno, il Vecchio Continente fatica, quindi, a trasformare le risorse spese in output concreti.
Le difficoltà europee, in ogni caso, non possono esimere l’Italia dalla necessità di portare avanti un cambiamento culturale. Il primo e più importante passo è quello di favorire l’imprenditorialità attraverso una maggiore propensione al rischio. Alla base vi deve essere la promozione della meritocrazia, capace di favorire l’innovazione e contrastare una cultura invasiva della rendita che frena le migliori energie produttive. Del resto, in un mondo che favorisce la crescita internazionale, la stessa figura del manager deve evolvere assomigliando sempre di più a quella di un imprenditore sui diversi territori, perché i processi top-down non sono efficaci quando la scala geografica e la presenza aziendale aumentano notevolmente.
Le politiche pubbliche costituiscono, inoltre, un importante strumento abilitante. Per sostenere innovazione e internazionalizzazione come elementi centrali per la crescita aziendale è importante l’impiego del canale diplomatico anche dal punto di vista economico. C’è bisogno, poi, di una politica industriale veramente mirata a sostenere l’internazionalizzazione. Un ulteriore aspetto riguarda la creazione di un sistema scolastico e universitario capace di offrire competenze tecniche e tecnologiche, abitudine al lavoro in team, apertura mentale verso il mondo ed esperienze all’estero.
Una formazione orientata a una vera cultura di impresa si è già dimostrata un fattore di successo per le tante aziende familiari che sono riuscite a crescere e ad affrontare per tempo il passaggio generazionale, grazie a una preparazione accurata che ha visto come protagonisti i futuri leader, sia le nuove generazioni di azionisti sia i nuovi manager. Il cambiamento però devo coinvolgere tutta l’organizzazione aziendale, senza dimenticare l’importanza di formare e attrarre un capitale umano che, a diversi livelli, deve avere le competenze per aprirsi al mondo e affrontare, con l’obiettivo della crescita, le tante sfide delle transizioni in atto.