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The economic impact of US elections

  • Roma
  • 20 Novembre 2024

        Il risultato delle elezioni americane è da sempre in grado di condizionare gli equilibri mondiali. E non solo in campo politico: non sono poche le amministrazioni ricordate per i propri programmi economici piuttosto che per decisioni di altro tipo. È il caso naturalmente del New Deal keynesiano di Franklin Delano Roosevelt negli anni Trenta, o della “Reaganomics”, le politiche di stampo liberista con cui gli Stati Uniti di Ronald Reagan seguirono la scia di Margaret Thatcher nel Regno Unito e diffusero un nuovo modello economico in tutto il mondo.

        La seconda presidenza Trump, in questo ambito, potrebbe essere ricordata per una svolta protezionista dalle grandi conseguenze per tutto il pianeta. Non c’è però solo lo scenario americano a condizionare la costruzione e il successo di determinate politiche economiche, ma anche il quadro internazionale, che sarà decisivo nello spiegarne l’impatto e l’esito.

        Il mondo del 2024 vede in corso due guerre che sono in un certo senso “mondiali”: non per fortuna per la loro estensione e per il coinvolgimento “fisico” dei protagonisti – siamo infatti su territori, tra il fronte russo-ucraino e quello israelo-palestinese – piuttosto ridotti. Ma lo sono per il coinvolgimento politico, diretto o indiretto, di quasi tutti gli attori internazionali, che spostano gli ambiti del conflitto su diversi altri piani: quello economico, quello diplomatico, quello culturale, quello energetico – questi sì di dimensione propriamente planetaria.

        Potenze come Russia, Cina, India, ma anche in modo più limitato Brasile, Turchia, Arabia Saudita,  ciascuna con diversi interessi e diversi obiettivi, alle prese con il tentativo di costruire una molteplicità di istituzioni internazionali alternative a quelle di matrice occidentale che negli ultimi decenni hanno monopolizzato il panorama globale. Infine, il cambiamento climatico globale ha impresso velocità e urgenza ai processi di transizione verso un modello di produzione e consumo meno centrato sulle energie fossili.

        Sono queste le condizioni globali che gravano sui programmi economici che metterà in atto la prossima amministrazione americana. Le promesse di Donald Trump da questo punto di vista si sono concentrate soprattutto su due ambiti: da un lato l’aumento sostanzioso del protezionismo, e quindi delle barriere doganali alle importazioni verso gli Stati Uniti; dall’altro i tagli fiscali e una riduzione radicale del peso del governo federale – dunque di una componente della spesa pubblica.  

        Perché gli elettori americani hanno premiato una tale proposta? Negli ultimi anni, almeno stando alle cifre e alle statistiche, gli standard di vita sono migliorati: ad esempio la disoccupazione è ai minimi storici, mentre il lavoro femminile non è mai stato tanto abbondante. Eppure larghi strati dell’opinione pubblica non sono affatto d’accordo con questa valutazione: il clima sociale è intossicato dalla paura diffusa dai cambiamenti nel mondo del lavoro, che spaventano le persone molto più di quanto i dati economici le rassicurino, mentre l’inflazione ha colpito soprattutto le fasce meno abbienti e meno istruite. Ciò ha provocato la crescita del nazionalismo economico e la diffusione di ricette politiche basate sul pregiudizio e la chiusura.

        Dal punto di vista della messa in pratica delle politiche economiche promesse, sul protezionismo l’amministrazione Trump ricorrerà più ai dazi proprio perché vuole ridurre l’intervento pubblico, lo stimolo economico-industriale che ha caratterizzato il mandato di Joe Biden. Oltre a ragioni di tipo ideologico, si può notare che i Repubblicani, nonostante la vittoria elettorale a tutto campo, hanno una maggioranza troppo risicata al Congresso per far passare ulteriori stanziamenti. L’imposizione di dazi, invece, è in sostanza una prerogativa presidenziale; e accrescere il costo delle importazioni dall’estero dovrebbe creare, nella visione di Trump e dei suoi alleati, le condizioni indirette, anche in assenza di stimoli diretti, per rendere conveniente la nascita di nuove filiere produttive e industriali basate sul territorio degli Stati Uniti. Il problema è che questo strumento di policy avrà anche l’effetto di un aumento sui prezzi dei beni di consumo di provenienza internazionale, da cui gli Stati Uniti sono molto dipendenti. Ci sono pochi dubbi dunque che i dazi verranno aumentati, e che dureranno, essendo peraltro notoriamente difficile eliminarli una volta che vengano applicati.

        Tuttavia, non sappiamo ancora quali saranno le nuove barriere, nei confronti di chi saranno innalzate, e quanto saranno alte: cambierà molto, ovviamente, se i dazi saranno mirati ad esempio specificatamente contro l’industria cinese, o contro quella europea, o se saranno universali. Finora, le produzioni cinesi sono riuscite in alcuni casi a evitare le barriere tariffarie americane spostando le linee produttive, o le rotte commerciali, in Paesi non sanzionati, come il Messico o il Canada.

        Tra le conseguenze dell’aumento delle barriere tariffarie c’è quindi la possibilità di rovinare le relazioni con Paesi considerati amici o alleati, come Canada e Messico appunto, ma anche Germania o Italia, i primi esportatori europei, o Giappone e Corea del Sud – Paesi-chiave per le strategie di sicurezza americane in Asia. Ma c’è anche la possibilità di causare danni irreparabili allo stesso sistema economico americano, se questo non si rivelasse capace di sostituire, e rapidamente, i beni provenienti dall’estero i cui prezzi aumenterebbero.

        Si tratta di un nodo cruciale, proprio perché l’obiettivo dei dazi è quello di riequilibrare la bilancia commerciale americana, ricostituendo indipendenza e robustezza di un’industria che negli ultimi decenni si è drammaticamente indebolita. Il punto è che i sistemi produttivi internazionali sono così interconnessi, ormai, che il blocco delle importazioni di merci cinesi ed europee potrebbe paradossalmente danneggiare prima di tutto l’industria americana, privandola di componenti necessarie alla produzione. Originerebbe dunque una perdita di posti di lavoro americani evidenziando, allo stesso tempo, una penuria di operai specializzati (oggi scarsi negli Stati Uniti) necessari all’implementazione di linee produttive nazionali che sostituiscano quelle globali.

        Un’ulteriore incognita è rappresentata dai prezzi. L’inflazione è stata uno dei motivi principali dell’insoddisfazione dell’opinione pubblica americana, che l’ha spinta a bocciare la proposta politica dei democratici. Il nuovo aumento dei prezzi colpirebbe anche l’Europa, perché le imprese esportatrici venderanno meno e dovranno dunque coprire le proprie perdite in altri modi, con l’aumento dei prezzi appunto, o i licenziamenti. L’Italia, in quanto potenza industriale esportatrice, sarà direttamente colpita da questi fenomeni.

        Un’ulteriore conseguenza potrebbe essere la ricerca, da parte delle industrie esportatrici, di nuovi mercati e nuovi accordi commerciali, ad esempio nei Paesi emergenti dell’Asia o dell’Africa. Si tratta di uno scenario realistico proprio per l’Europa, in condizione di incertezza e fragilità economico-politica, oltre che sofferente per la mancanza strutturale di risorse energetiche e materie prime critiche. Se ciò dovesse verificarsi, il nuovo protezionismo americano potrebbe paradossalmente provocare una maggiore integrazione dei mercati euro-asiatici, che non sarebbe soltanto economica. I Paesi europei e la Cina, da questo punto di vista, potrebbero trovarsi con un interesse comune, e gli Stati Uniti avrebbero pochi mezzi per impedire un’intesa.

        In campagna elettorale Trump è stato molto chiaro su un altro obiettivo: aumentare la produzione americana di petrolio e gas, favorendo ancora la ricerca di giacimenti e l’istallazione di nuovi pozzi. Gli Stati Uniti, grazie alle nuove tecniche estrattive, hanno raggiunto l’indipendenza energetica già oltre dieci anni fa. Grazie alla guerra in Ucraina, che ha ridotto massicciamente l’approvvigionamento russo all’Europa, hanno trovato anche un nuovo mercato per i propri idrocarburi, comunque piuttosto cari rispetto alla fornitura russa a causa del necessario processo di liquefazione e rigassificazione.  

        Un aumento ulteriore della produzione americana provocherebbe una diminuzione dei prezzi di gas e petrolio che potrebbe avere diversi vantaggi. Intanto, addolcire a livello nazionale la pillola delle conseguenze del protezionismo, grazie a costi energetici minori. Poi, offrire all’Europa qualcosa da mettere sul piatto della bilancia delle barriere commerciali: gas e petrolio più economici, da un produttore sicuro, al riparo dalle turbolenze dell’Africa o del Medio Oriente – un’assicurazione “geopolitica” non indifferente.

        La diminuzione dei prezzi provocata dall’aumento della produzione avrebbe, così, ripercussioni a livello mondiale: renderebbe gli idrocarburi americani più competitivi (cosa che peraltro beneficerebbe la bilancia commerciale nazionale). E impatterebbe sui prezzi decisi dai Paesi OPEC+, Russia e Arabia Saudita soprattutto, danneggiandone le entrate (dato che si tratta di Paesi dipendenti dal commercio di idrocarburi) e costituendo una leva di pressione politico-diplomatica importante.

        Tra gli effetti negativi per gli Stati Uniti, non sarebbe indifferente però il distacco dai processi di transizione energetica e dalle loro filiere industriali, già quasi egemonizzate dalla Cina. L’America potrebbe trovarsi tra le mani un’industria inefficiente che, se l’avanzamento tecnologico legato ad altre fonti energetiche facesse progressi importanti, si rivelerebbe inadeguata e arretrata. Inoltre, nel suo primo mandato Trump uscì dagli Accordi di Parigi per contenere il riscaldamento globale, e un’America tutta tesa ad aumentare la produzione di idrocarburi, e già tra i maggiori emettitori di CO2 al mondo, potrebbe trasformarsi in un problema politico: soprattutto in un quadro globale in cui gli eventi catastrofici determinati dal cambiamento climatico non faranno che aumentare nei prossimi anni.

        Tra le poche certezze, c’è senz’altro il bisogno di compiere scelte importanti in Europa, sia a livello comunitario che dei singoli Paesi; un passo necessario per affrontare le politiche americane in un mondo che cambia anche a prescindere dalle preferenze di Washington.

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