La discussione in corso sulle riforme della governance economica europea si inserisce in un contesto macrofinanziario piuttosto incerto e volatile. I rischi principali riguardano una fase di stagflazione, una frammentazione finanziaria, un problema di competitività (a fronte della forte azione americana con l’Inflation Reduction Act) e, infine, la “doppia transizione” (digitale e sostenibile).
Rispetto al rischio di stagflazione, il ritorno a una linea fiscale prudente deve combinarsi con riforme dal lato dell’offerta: la BCE può avere un ruolo costruttivo nel gestire l’inflazione (alta o bassa che sia), ma non da sola – pena un costo più alto per l’intero sistema economico. Attivare una sorta di “supply shock positivo” sarà un fattore decisivo per bilanciare lo shock negativo che sta producendo le attuali spinte inflattive.
Prevenire la frammentazione finanziaria richiede certamente il contenimento dello spread, ma l’esperienza del Next Generation EU insegna che il modo migliore di farlo è creare condizioni di maggiore fiducia mentre si intraprende un percorso di riduzione graduale del debito pubblico.
La stessa promozione delle transizioni gemelle richiede una gradualità nel contenimento del debito e l’accresciuta flessibilità del sistema europeo è cruciale anche per favorire gli investimenti a sostegno della competitività.
Rimane il fatto che ciascuna delle quattro sfide implica dei delicati trade-off per l’UE, visto il contesto globale meno favorevole rispetto a pochi anni fa.
A complicare il quadro vi sono le preoccupazioni sul sistema bancario europeo, in vista di un possibile contagio dagli Stati Uniti e del mutato contesto dei tassi d’interesse: queste sono giustificate, seppure con il dato positivo delle regole più stringenti che caratterizzano il settore nel vecchio continente. Il problema principale potrebbe trovarsi nelle istituzioni non-bancarie, molte delle quali sono fortemente indebitate e necessitato di ristrutturazioni.
Guardando alla transizione verde, il percorso è ora condizionato anche dall’urgenza di assicurare le forniture energetiche, ponendo maggiore enfasi sulla sicurezza degli approvvigionamenti (anche in chiave infrastrutturale). C’è una maggiore percezione diffusa del ruolo strategico dell’energia e delle tecnologie digitali nel funzionamento del sistema economico: dunque, la legislazione europea deve contribuire attivamente a questi obiettivi, adottando un’ottica ampia e bilanciata, ad esempio nell’integrare la componente delle risorse naturali (che a loro volta dipendono da attività minerarie complesse e da filiere spesso lunghe) nelle politiche per la transizione.
In termini più generali, è indispensabile un approccio di politica industriale complessiva per perseguire realisticamente quegli obiettivi – e secondo alcuni partecipanti una tempistica meno stringente di quella fissata dall’UE, con i target al 2030 e al 2050.
In una prospettiva transatlantica, è stato sottolineato che gli elementi protezionistici dell’IRA esistono (soprattutto nei settori delle auto elettriche e degli impianti per fonti rinnovabili), ma non sono preponderanti e in ogni caso le misure in vigore stanno creando grandi nuovi spazi di mercato; la posizione europea di critica e preoccupazione per gli effetti e la dimensione delle misure statunitensi va inserita nel contesto delle varie forme di sussidi che l’UE e i suoi Paesi membri hanno già messo in campo da tempo. La dimensione dei mercati è comunque un aspetto decisivo e dinamico, da non sottovalutare.
Rimane una differenza di fondo nel metodo adottato dagli Stati Uniti – che puntano anzitutto all’innovazione e alla crescita di alcuni settori strategici, senza grande enfasi su obblighi imposti per via legislativa – e dall’UE – con una dettagliata tempistica e obiettivi piuttosto specifici, definiti in termini normativi. Va sempre ricordato, comunque, che gli aumenti di produttività, dai quali poi derivano anche le riduzioni dei costi per i consumatori, emergono in ultima analisi dalla concorrenza e non dagli strumenti protezionistici; è un’osservazione che vale sia per le imprese sia per gli stessi sistemi-Paese.
Una seconda differenza rilevante a livello transatlantico riguarda il settore della difesa e il suo stretto legame con le nuove tecnologie: qui le risorse mobilitate dagli Stati Uniti sono state in passato e restano attualmente ben superiori e più efficienti rispetto a quelle mobilitate dall’UE – anche in chiave aggregata, sommando i bilanci dei Paesi membri. C’è oggi una maggiore sensibilità europea su questo punto, ma va ancora costruito un solido consenso prima di avere un impatto significativo sulla competitività complessiva.
In chiave globale, gli sforzi europei vanno poi valutati nella prospettiva del crescente ruolo cinese negli stessi settori-chiave e nell’innovazione sostenibile: è un quadro con elementi contraddittori, in cui la Cina sta tuttora aumentando le proprie emissioni di CO2 – a dispetto degli impegni per una riduzione e un solido posizionamento nelle filiere tecnologiche più avanzate – ponendo al centro delle sue priorità la competizione sistemica con le economie occidentali. Dunque, l’intera sfida per sviluppare nuovi modelli di crescita va vista su questo sfondo, in cui combinare sicurezza e diversificazione, innovazione e transizione sostenibile, competitività industriale e crescita.