“Il mondo non finisce certo oggi con la crisi”. Andrea Goldstein, senior economist dell’OCSE ed esperto di economie emergenti, spiega al sito di Aspen come l’Italia, nonostante i problemi legati alla congiuntura economica, abbia le carte in regola per riprendere il cammino dello sviluppo. E lo può fare iniziando da quel soft power, collegato alla storia, alla cultura e alla qualità delle produzioni manifatturiere, che il Paese esercita anche sui mercati a più alta crescita. Del resto “se l’Italia ha bisogno di un’Europa forte – ricorda Goldstein – l’Europa ha decisamente bisogno di un’Italia forte, perché si rafforza solo se le sue componenti fondamentali sono più autorevoli e capaci di contribuire allo sviluppo”.
Italia e mercati emergenti: bastano i nostri settori di eccellenza?
L’Italia ha molti di punti di forza, percepiti come tali sui mercati emergenti. Siamo nel novero delle grandi potenze industriali e veniamo riconosciuti come un Paese che ha saputo fare del settore manifatturiero la propria eccellenza; e questo è importante in un momento storico in cui la produzione industriale sembra aver nuovamente trovato centralità nell’economia mondiale. Macchinario, lusso, cibo, artigianato, distretti industriali, movimento cooperativo: l’insieme di questi elementi rende i BRIC interessati anche all’Italia. Certo, se guardiamo agli investimenti, non sono ancora i grandi numeri che si possono trovare in altri Paesi come il Regno Unito, ma anche sul mercato italiano si vedono sempre più spesso operazioni realizzate da investitori cinesi, indiani e russi. E alla fine con tanti piccoli numeri si può riuscire a far emergere una vera massa critica. Per mettere a sistema tutto questo, però, è indispensabile una visione di lungo periodo.
Serve un progetto a lungo termine?
Sono convinto che l’Italia sarà capace di giocare a pieno il proprio ruolo solo se capisce davvero quale avvenire vuole per se stessa. Anche se la situazione è difficile, dobbiamo avere il coraggio di pensare al nostro futuro, riportando al centro dell’agenda il dibattito sulla pianificazione e sulla programmazione di medio e lungo periodo. Gli italiani lo hanno fatto in passato e non possiamo pensare che il mondo finisca oggi con la crisi. Per capire dove andare possiamo partire dalla percezione positiva che si ha dell’Italia all’estero: il senso estetico, la cultura e il made in Italy vengono percepiti come punti di forza sui mercati emergenti. Si tratta di un soft power che il Paese può esercitare e che, ricordiamolo, si associa a un capitale umano di buona, spesso eccellente, qualità. Si parla molto di fuga dei cervelli, ma del resto non ci sarebbe questa fuga se non ci fossero in Italia persone capaci e ben formate.
Investimenti dai Paesi emergenti: siamo pronti?
Esiste in questo campo un paradosso tutto italiano: la percezione diffusa che il mercato nazionale sia chiuso agli investimenti esteri. Eppure se andiamo vedere alcuni settori (pensiamo alle banche, alla telefonia, persino al trasporto aereo…) l’apertura agli investitori stranieri è maggiore rispetto ad altri Paesi europei. Certo per sfruttare al meglio le opportunità che arrivano dall’estero dobbiamo in primo luogo capire quali settori della nostra economia sono strategici e come vanno tutelati, e poi procedere rendendo le nostre imprese competitive e appetibili per gli investitori. Una volta ancora, dobbiamo avere il coraggio di pianificare il nostro futuro, di avere una visione di ciò che vogliamo essere come Paese. L’obiettivo deve essere quello di attrarre investitori che siano interessati alle imprese italiane per farle crescere, che vogliano “sporcarsi le mani” e mettere a disposizione risorse non solo finanziarie, ma anche organizzative e relazionali per aprire l’accesso ai nuovi mercati.
La “conquista” dei mercati emergenti è una partita che l’Italia può giocare da sola?
Non credo. Tutte le dinamiche che legano l’Italia ai mercati emergenti – e ai BRIC in particolare – devono essere viste in un’ottica europea. L’Italia, infatti, uscirà dalla crisi solo se si lega di più all’Europa. Il paradosso, di cui sembra che pochi (tra cui il presidente Prodi) siano coscienti, è che, se l’Italia ha bisogno di un’Europa forte, l’Europa ha altrettanto bisogno di un’Italia forte. Non solo perché le dinamiche economiche italiane creano rischi e vulnerabilità per tutti. L’Italia è un partner fondatore dell’Europa e non può aspettare passivamente un aiuto europeo: l’Europa sarà forte solo se le sue componenti fondamentali – come l’Italia – saranno più forti, più autorevoli e capaci di contribuire allo sviluppo. Per questo, quando l’Europa riflette sul proprio avvenire, è fondamentale che l’Italia sia in grado di fare le proprie proposte. Sapendo far valere il proprio interesse nazionale, quando questo non coincide con quello degli altri partner.