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Un italiano per la sanità cinese. Intervista a Fabio Scano

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    • 7 Giugno 2012
    • Giugno 2012
    • 7 Giugno 2012

    La medicina per rendere più attrattivo il mondo italiano della ricerca? Per Fabio Scano, responsabile per l’Oms del programma per il controllo della tubercolosi in Cina, è l’internazionalizzazione. Secondo l’infettivologo, membro della comunità “I protagonisti italiani all’estero” di Aspen Institute Italia, solo in questo modo l’Italia potrà contrastare la fuga dei cervelli e far valere ancora di più l’alta preparazione fornita dalle università del nostro Paese.

    Quanto ha inciso la formazione ricevuta in Italia nella sua carriera all’estero?
    Ho avuto la fortuna di frequentare il Collegio del mondo unito di Duino, e questo ha fatto sì che io fossi in relazione più col mondo che con i compagni di studio italiani provenienti dallo stesso quartiere: cercare una carriera all’estero è stato naturale. Finito il collegio, per ragioni puramente economiche iniziai medicina a Padova, dove mi sono specializzato in infettivologia. In quegli anni cercai di continuare a guardare all’estero, e andai in Spagna, negli Usa, ad Harvard, in Uganda e in Polonia. Dopo un lungo periodo a Ginevra e uno in Sudafrica, da due anni sono responsabile per le malattie infettive in Cina, in particolare mi occupo di tubercolosi farmacoresistente.
    Penso di aver fatto un’ottima università; forse a volte teorica, ma mi ha dato basi solide.

    Dal punto di vista di un italiano che ha sempre guardato all’estero, cosa potrebbe rafforzare la ricerca scientifica in Italia?
    L’Italia dovrebbe mettersi in relazione col mondo attraverso, per esempio, specializzazioni in lingua inglese anziché italiana. In medicina ci sono specializzazioni per cui l’Italia eccelle. Anche i corsi di ricerca dovrebbero essere in inglese: l’università si deve proiettare fuori dai confini nazionali e fare di tutto per entrare nel ranking delle migliori al mondo. La competitività a livello internazionale darebbe la spinta necessaria per molti cambiamenti.

    Che risvolti ha, da un punto di vista culturale, l’esperienza che sta maturando in Cina?
    Non sono d’accordo con chi sostiene che noi italiani abbiamo un’elevata capacità di adattamento: secondo me questa caratteristica non ha a che vedere con la nazionalità. In Cina ho conosciuto un diverso approccio al problem solving, che richiede l’osservazione dei fattori ambientali. La soluzione può arrivare solo dall’interazione con tutti i fattori ambientali, perché se si passa direttamente alla soluzione, è la soluzione stessa, anche se valida, a saltare. Ecco che, allora, se si guarda al modo di agire degli italiani emerge l’applicazione della creatività, più che il sapersi adattare.

    Quali sfide affronta nella lotta alla tubercolosi in Cina?
    Nel mio lavoro, la controparte è il governo cinese, con il quale dialoghiamo per mettere in atto modelli di controllo che siano pagati con risorse pubbliche. In Cina vivono 150 milioni di persone sotto la soglia di povertà: è questa, più che quella del miracolo economico e del business, la Cina con la quale ho a che fare. La grande sfida, oggi, è ridurre le differenze tra popolazione rurale e popolazione urbana: nel paese ci sono 250 milioni di migranti interni privi di diritti, perché l’accesso ai servizi sociali e sanitari sono legati alla residenza. Accanto a cambiamenti sociali, economici e politici epocali, insomma, la Cina deve affrontare il capitolo della povertà e la diffusione delle malattie infettive. Essere la seconda economia mondiale vuol dire anche assumersi sempre maggiori responsabilità nei confronti della popolazione, e l’incidenza della tubercolosi può essere considerato un indicatore di quanto il governo si prende cura dei cittadini. Quello che è affascinante è osservare come i Brics, quindi anche la Cina, stiano assumendo sempre più importanza: vedremo come le relazioni tra Europa, America e Cina cambieranno proprio sulla base del nuovo peso di questi attori.