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Tubercolosi come l’AIDS: la guerra non è ancora vinta. Intervista a Mario Raviglione.

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    • 6 Aprile 2012
    • Aprile 2012
    • 6 Aprile 2012

    Un medico in lotta contro uno dei più feroci killer al mondo: la tubercolosi. Mario Raviglione, membro della comunità “I protagonisti italiani all’estero” di “Aspen Institute Italia”, è direttore del dipartimento Stop TB dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
    Dopo una laurea a Torino e molti anni di lavoro negli Stati Uniti combatte ora a Ginevra una guerra contro una malattia che miete ancora “1,5 milioni di vittime all’anno”, come ha spiegato al sito di Aspen.

    Lei è a capo del programma dell’Oms contro la tubercolosi. A che punto è la lotta contro questa malattia?
    La tubercolosi è il secondo killer al mondo dopo l’Aids, con 1,5 milioni di vittime all’anno. È, quindi, una malattia tutt’altro che estinta: calcoliamo che un terzo dell’umanità sia infettata, anche se non malata, e quindi a rischio potenziale di malattia. All’Organizzazione Mondiale della Sanità ci occupiamo del problema della tubercolosi dall’inizio alla fine: curiamo la parte normativa, il monitoraggio globale, l’assistenza ai singoli paesi, concepiamo la ricerca operativa. È un lavoro su cui c’è una pressione non indifferente anche dal punto di vista politico. Fra gli obiettivi del Millennio fissati dalle Nazioni Unite, infatti, vi è quello di ridurre entro il 2015 l’incidenza annuale della tubercolosi insieme a quella di altre patologie come l’Aids e la malaria.

    Quali risultati sono stati conseguiti e quali traguardi restano da raggiungere?
    L’Organizzazione Mondiale della Sanità si è posta come punto di arrivo quello di eliminare la tubercolosi entro il 2050. Significherebbe, in pratica, portare i tassi di malattia dagli attuali 1.400 per milione a uno per milione all’anno;  è un traguardo che però, con i mezzi di cui disponiamo attualmente, risulta impossibile da raggiungere. La speranza è posta nei progressi della ricerca anche se la preparazione  di un vaccino – per le caratteristiche della malattia che la rendono difficile da simulare efficacemente in laboratorio – è ancora problematica. Non esiste al momento una profilassi che possa essere somministrata su grande scala per debellare la malattia come avvenuto, ad esempio, decenni fa con il vaiolo. È vero, tuttavia, che a partire dalla metà degli anni Duemila si è raggiunto un picco e adesso l’incidenza sembra scendere sebbene molto lentamente. Più veloce è invece la tendenza alla riduzione delle morti per tubercolosi grazie all’introduzione di metodi efficaci di cura del malato. Stimiamo che ben 7 milioni di vite umane siano state salvate grazie alla strategia di controllo dell’Oms tra il 1995 e il 2010.

    Come è arrivato a guidare il dipartimento Stop TB dell’Oms?
    Ho studiato a Torino e dopo la laurea ho passato diversi anni facendo ricerca clinica negli Stati Uniti nel campo delle malattie infettive, l’AIDS, e la tubercolosi. Nel 1991 mi è stata offerta la possibilità di entrare all’Organizzazione Mondiale della Sanità come junior professional officer nominato dal Governo italiano. La decisione di venire a Ginevra è, in realtà, anche frutto di un’esperienza che ho fatto  nel 1987 in Swaziland. Lavorare lì mi ha motivato a cercare un contesto internazionale in cui fare qualcosa di utile ed efficace per la salute nei Paesi in Via di Sviluppo. A tutt’oggi, infatti, la tubercolosi colpisce in piu’ del 90% dei casi i paesi più poveri.

    Qual è la situazione della formazione medica in Italia? Come valorizzare le eccellenze?
    Credo che in Italia si sia andati verso un’americanizzazione del sistema, un’evoluzione progressiva che ha portato ad alcuni miglioramenti. In tempi recenti l’introduzione del numero chiuso ha probabilmente aiutato ad alzare il livello delle facoltà di medicina, dove una volta era persino difficile assistere ad alcune lezioni tanti erano gli studenti. Esistono, inoltre, alcuni centri privati che sono al livello degli ospedali universitari degli Stati Uniti, ma c’è ancora molto lavoro da fare. La chiave è dare opportunità e riconoscimenti a chi ha voglia di fare: questo aiuterebbe a fermare la fuga delle risorse migliori. La circolazione dei cervelli è un aspetto fondamentale per l’apertura del sistema: l’Italia, in particolare, dovrebbe aumentare la capacità di attrarre e trattenere ricercatori qualificati provenienti dall’estero. Senza un’adeguata “circolazione” di cervelli e investimento sui giovani talenti non riusciremo a guadagnare un ruolo internazionale più importante di quello odierno.