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Opere d’arte e nuovi 007. Intervista a Francesca Casadio

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    • 31 Agosto 2014
    • Agosto 2014
    • 31 Agosto 2014

    Ricercare in un quadro le tracce di un colore perduto o i segni identificativi dell’artista che distinguono un falso da un capolavoro. Questo il lavoro che un chimico può fare all’interno di un’istituzione come l’Art Institute di Chicago. Francesca Casadio, che nel secondo museo americano per superficie dopo il Metropolitan di New York, ha fondato e dirige il laboratorio di analisi scientifiche per le opere d’arte, racconta al sito di Aspen il proprio lavoro di art detective e spiega come il connubio fra arte e nuove tecnologie non solo porti a interessanti scoperte in campo artistico, ma contribuisca anche a valorizzare le opere, avvicinandole a un pubblico più vasto.

    Che lavoro svolge un chimico in un museo?
    Penso al mio lavoro come a quello di un art detective, visto che applico alle opere d’arte un approccio di indagine simile a quello della chimica forense. Questo lavoro, all’interno di un’istituzione come l’Art Institute di Chicago, risponde sostanzialmente a tre esigenze: indagare e comprendere le intenzioni dell’artista, ricostruendo la genesi dell’opera; aiutare il lavoro dei restauratori attraverso l’analisi dei materiali; stabilire l’autenticità di un’opera. Infatti quando andiamo ad analizzare un dipinto possiamo riconoscere il modo di procedere dell’artista, caratterizzato da tentativi e magari anche da incertezze. La totale mancanza di questi segnali,

    insieme all’identificazione di materiali o processi che non erano stati ancora inventati quando l’artista era in vita, può indurci a dire che si tratta di un falso.

    Quali tecnologie utilizzate per questa indagine?
    Fra i diversi strumenti che utilizziamo, di particolare interesse è una tecnica sviluppata in collaborazione con la Northwestern University che permette di analizzare materiali e coloranti di un quadro. Si chiama Surface Enhanced Raman Spectroscopy, ed è una spettroscopia amplificata di superfici che utilizza laser e nanoparticelle. Questo approccio ci permette di trovare con molta facilità un materiale o un colorante da noi ricercato anche in quantità infinitesime, restituendocene una sorta di impronta digitale. Si tratta di informazioni che possono fare scoprire i colori originali di un’opera, aiutandone anche il restauro. Di recente abbiamo coinvolto i visitatori nel restauro di un Renoir: il ritratto di Madame Clapisson. Togliendo l’opera dalla cornice originale abbiamo scoperto materiali che indicavano come il dipinto avesse in origine dei colori molto più brillanti. Abbiamo così messo a confronto il quadro con una sua versione “ricolorata”, capace di riprodurre l’aspetto originario dell’opera.

    Qual è stata la reazione del pubblico?
    La reazione è stata molto positiva e l’esposizione si è rivelata un successo proprio per la capacità di mostrare l’efficacia del connubio fra arte e tecnologia. Questo, in un museo, non solo è molto stimolante, ma aiuta tantissimo a coinvolgere i visitatori, facendo vivere le opere d’arte. Del resto siamo di fronte a un tema molto sentito negli Stati Uniti dove l’arte viene percepita come elitaria.

    Per coinvolgere un pubblico più vasto, insomma, bisogna raccontare storie in cui le opere sono protagoniste. Si tratta di un approccio che ritengo debba essere considerato anche in Italia. Non tanto dai musei più famosi, quanto da quelle collezioni che si vogliono rilanciare e attrarre nuovi visitatori.

    Chi mette i soldi in tutto questo?
    Negli Stati Uniti la ricerca universitaria in questo campo è finanziata a livello federale, mentre nei musei americani è molto attivo il mecenatismo. Appena sono arrivata qui, ho imparato che nel fundraising è fondamentale coinvolgere i finanziatori ed emozionarli con il progetto che si vuole veder realizzato; questo, una volta ottenuti i fondi, garantisce tantissima libertà. L’importanza del coinvolgimento è centrale, poi, anche nei confronti del pubblico. Anche per questo negli Stati Uniti è nata una polemica sulla mancata valorizzazione delle opere archeologiche restituite all’Italia, spesso destinate a musei poco visitati.

    Sono convinta che le opere d’arte possono essere messe a frutto. Certo, ci vogliono vincoli precisi sulla loro conservazione, oltre che sulla destinazione dei fondi legati al loro sfruttamento economico. Le effettive possibilità d’uso delle opere, infatti, devono essere valutate insieme restauratori e sovrintendenti nel totale rispetto delle strutture e delle collezioni storiche.

    Eppure non ci possiamo dimenticare in Italia ci sono tantissime possibilità di valorizzazione: perché ad esempio non creare accordi con università straniere nella ricerca archeologica, per poi prestare le opere rinvenute, per un periodo limitato di tempo, a cambio di un compenso? Il prestito di una collezione è servito anche qui all’Art Institute per finanziare il restauro di un piano del museo. Un Paese depositario di tanti tesori come l’Italia non dovrebbe lasciarsi scappare questa occasione.

    Francesca Casadio è Andrew W. Mellon Senior Conservation Scientist all’Art Institute of Chicago, dove dal 2003 ha fondato il laboratorio di analisi scientifiche per le opere d’arte che tuttora dirige. Ha ricevuto un dottorato in Chimica dall’Università degli studi di Milano. Il suo principale interesse scientifico è l’applicazione di tecniche avanzate (tra cui analisi al sincrotrone e la spettroscopia surface enhanced Raman) allo studio e conservazione delle opera d’arte.