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Lotta ai tumori: non più viaggi della speranza, ma strutture di qualità sul territorio. Intervista ad Antonio Iavarone

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    • Research
    • 14 Febbraio 2018
    • Febbraio 2018
    • 14 Febbraio 2018

    Sei anni fa i ricercatori della Columbia, guidati da Antonio Iavarone ed Anna Lasorella annunciarono la scoperta di una fusione fra due geni, FGFR3 e TACC3, responsabili del 3% dei casi di gliobastoma, il più aggressivo e letale dei tumori al cervello (qui il link all’intervista pubblicata da Aspen). Oggi fanno un passo ulteriore, individuando il meccanismo innescato da questa fusione genica e identificando, di fatto, il motore che fa crescere alcuni tipi di cancro. Una ricerca, i cui esiti sono stati appena pubblicati su Nature,  resa possibile da uno studio accurato e personalizzato dei tumori, in cui la bio-informatica e l’analisi dei big data risultano determinanti.

    Come siete arrivati ad identificare il meccanismo innescato dalla fusione dei geni FGFR3 e TACC3?
    Nel 2012 abbiamo scoperto l’esistenza di questa fusione, rilevandone l’esistenza nel 3% dei pazienti affetti da gliobastoma. Questa ricerca, pubblicata su Science, faceva parte di più ampio studio di sequenze geniche su cui siamo ancora oggi impegnati. In seguito alla nostra scoperta, la stessa fusione genica è stata descritta da molti altri studi che ne hanno rilevato la presenza nella maggioranza dei tumori umani, sempre con un’incidenza fra il 2 e il 4% dei casi. Insomma quella fra FGFR3 e TACC3 è probabilmente la più frequente fusione genica descritta finora nel cancro.

    Il nostro ultimo studio pubblicato su Nature svela, invece, il meccanismo di azione di questa fusione, fino ad oggi sconosciuto. In pratica questa fusione genica induce la produzione di energia,  causando il cancro con l’attivazione del metabolismo energetico cellulare. La produzione di energia avviene attraverso la stimolazione incontrollata dell’attività di alcune organelli subcellulari, detti mitocondri, che sono le centraline di energia della cellula. Si tratta di uno schema sicuramente molto complesso e del tutto nuovo che siamo riusciti a identificare grazie a una piattaforma altamente innovativa di  tecnologie integrate computazionali e sperimentali.

    Quali implicazioni cliniche ha la vostra ultima scoperta?
    Adesso sappiamo come attaccare alcuni casi di tumori, perché sappiamo ciò che il tumore fa per crescere ed espandersi. Il concetto di medicina personalizzata richiede uno studio approfondito del tumore: oggi siamo in grado di identificare i casi in cui la fusione genica descritta dai nostri studi avviene e abbiamo le armi per andare a bloccare il metabolismo mitocondriale, che significa inibire la produzione di energia capace di alimentare il tumore. Al momento continuiamo a usare farmaci bersaglio capaci di “colpire” la proteina di fusione. Nei topi abbiamo sperimentato, tuttavia, farmaci antimetabolici che bloccano il metabolismo mitocondriale. Speriamo di poterli usare presto anche nei pazienti come ulteriore arma: i farmaci bersaglio, infatti, hanno fatto riscontrare diversi fenomeni di resistenza farmacologica.

    Quali strumenti sono necessari per questo approccio personalizzato alla cura dei tumori?
    Le opportunità terapeutiche nella cura dei tumori si moltiplicano con le ultime tecniche molecolari disponibili. E questo perché la malattia può avere caratteristiche differenti in ciascun individuo. Ogni paziente di fatto è un progetto, se si hanno gli strumenti a disposizione per poterlo studiare. Infatti anche se non si riscontra una fusione genica come quella descritta dai nostri studi, un’analisi accurata può trovarne altre, ugualmente  “bersagliabili”.

    Il prerequisito, tuttavia, è preservare in maniera molto accurata i tumori, fin dalla loro rimozione in sala operatoria. Il loro congelamento e la creazione di una banca dei tumori permette di analizzarli ed interpretarli, grazie a esperti di bio-informatica. Si tratta di analisi che, se condotte su grande scala, possono rivelare interessanti tendenze nella popolazione. Qui entriamo nel campo dell’analisi dei big data, uno strumento fondamentale per la medicina. I nostri studi alla Columbia mostrano i risultati di indagini condotte su pazienti americani, ma popolazioni diverse possono presentare tendenze differenti. Al momento, per esempio, noi non conosciamo quale sia il contesto genetico dei tumori in Italia, perché non esistono centri che possano condurre indagini di questo tipo.

    È possibile reperire in Italia talenti e infrastrutture per offrire questo tipo di cure?
    Si può fare. Ma sono necessari centri di ricerca avanzati che applichino le tecnologie e le forniscano in real time ai pazienti. La creazione di centri di grande valore internazionale è fondamentale affinché queste strutture attraggano i migliori scienziati del mondo – dai medici agli specialisti di big data –  e i finanziamenti delle grandi società farmaceutiche: solo così si riescono a realizzare studi innovativi. A mio avviso si tratta di un problema di volontà, più che di costi. Centri di ricerca di elevato standard internazionale portano, infatti, moltissimi benefici perché l’investimento si ripaga con l’attrazione di finanziamenti non solo per la ricerca, ma anche per gli studi clinici. La speranza oggi è riposta nello Human Technopole: a mio avviso, tuttavia, è necessario che questo progetto si apra al mondo, con un maggior coinvolgimento della comunità scientifica internazionale. E, comunque, visto quanto è importante conoscere le caratteristiche geografiche di una determinata popolazione, l’Italia dovrebbe realizzare più centri di ricerca di questo tipo, non solo a Milano, ma anche a Sud. Nella medicina personalizzata, infatti, i cosiddetti “viaggi della speranza” non servono: servono invece strutture di qualità presenti sul territorio.