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Innovazione: in laboratorio servono anche manager. Intervista a Giorgio Margaritondo

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    • 4 Novembre 2013
    • Novembre 2013
    • 4 Novembre 2013

    Formare ricercatori con capacità manageriali per inserirli all’interno del sistema industriale. Questo, secondo Giorgio Margaritondo, potrebbe contribuire a rilanciare la formazione scientifica in Italia, aiutando nello stesso tempo il processo di innovazione delle imprese. Una strada da intraprendere riformando il dottorato e rafforzando i legami fra ricerca universitaria e azienda, sul modello di quanto avvenuto in Svizzera negli ultimi anni.

    Giorgio Margaritondo è Decano della Formazione Continua e Professore Ordinario di Fisica presso il Politecnico Federale Svizzero di Losanna (EPFL), di cui è stato vicepresidente. Specializzato nei campi della fisica dei solidi e della spettroscopia e microscopia a raggi x con luce di sincrotrone, ha pubblicato oltre 660 articoli di ricerca su riviste internazionali.

    Quanto contano le capacità manageriali nella formazione dei ricercatori? E quanto sono cruciali queste competenze per contribuire a un Nobel, come avvenuto nel caso del CERN per il lavoro sul bosone di Higgs?
    Le competenze manageriali per quanto riguarda grandi centri come il CERN sono non solo importanti, ma indispensabili. Progetti come quelli hanno successo o falliscono grazie a fattori che sono spesso esterni alla ricerca e che si basano su una gestione ottimale delle risorse. Centri di tale grandezza sono come grandi imprese. Eppure la pratica di una buona gestione non serve solo alle “grandi macchine”, ma andrebbe adottata tutti livelli.
    E qui arriviamo a uno dei problemi che riguardano la formazione dei ricercatori in Italia: l’incapacità dell’accademia di fornire competenze manageriali come, ad esempio, la gestione del personale che in un laboratorio rimane un fattore chiave. Il problema dell’Italia è in particolare il dottorato di ricerca, che forma ancora persone per una professione – quella accademica – in cui gli sbocchi sono pressoché assenti. In altri Paesi, invece, il dottorato garantisce una formazione di alto livello che può essere impiegata con successo anche in campo industriale. Certo, anche in Italia ci sono esempi di eccellenza da cui prendere spunto. Non ne sono mai stato membro, e quindi ne parlo senza alcun conflitto di interesse: l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare è da sempre un simbolo di eccellenza, con un ottimo sistema gestionale capace di promuovere i giovani a posizioni di responsabilità.

    Da dove partire per riformare il dottorato?
    Partiamo da tre punti: in primo luogo c’è bisogno di un diverso sistema di selezione dei dottorandi, prendendo esempio dall’estero dove i gruppi di ricerca hanno autonomia nell’assumere studenti di dottorato, mentre a livello centrale si controlla solo la qualità della ricerca. Poi, è necessaria una maggiore connessione con il mercato del lavoro privato: sarebbe fortemente consigliato, ma io direi quasi obbligatorio, un periodo di ricerca presso un laboratorio industriale. Questo infatti è un ottimo modo per fare entrare i dottorandi in contatto con aziende interessate a trattenerli e ad assumerli. Infine, è importante introdurre anche una componente di educazione alla managerialità, fornendo agli studenti competenze trasversali. Ad esempio all’EPFL il 50% di chi ha conseguito un dottorato dopo cinque anni ha cambiato lavoro, non perché insoddisfatto, ma perché chi ha un PhD vuole aumentare le proprie chance di carriera. Ed è la formazione a permetterglielo. Il dottorando, insomma, non deve essere solo un apprendista di ricerca, ma anche una persona che si propone come professionista in ambito industriale.

    Come avviare i cambiamenti? Partendo dall’università o dall’industria che in Italia è comunque poco propenso a investire in innovazione?
    Siamo al problema dell’uovo e della gallina. Se nell’industria entrano persone – magari studenti di dottorato – con adeguate competenze, si può uscire dal circolo vizioso in cui si trovano intrappolate molte aziende. Le imprese sono fatte di persone e cambiare la mentalità di chi vi lavora aiuta a renderle più innovative. Per questo bisogna stimolare l’interazione fra università e imprese, utilizzando strumenti come il dottorato industriale.
    In questo campo l’Italia è indietro di una/due generazioni rispetto ad altri Paesi europei, e ben di più rispetto agli Stati Uniti. Un modello da cui trarre esempio può essere la Svizzera che fino a una ventina di anni fa aveva criticità simili a quelle dell’Italia di oggi: in pochi anni le università elvetiche sono riuscite a riformarsi e a diventare motori di sviluppo, creando nuovi posti di lavoro. Ad oggi come EPFL siamo non solo il maggiore centro di ricerca della regione di Losanna, ma anche uno dei principali volani dell’economia locale. Per fare questo, però, bisogna aprirsi al privato: al nostro budget di 600 milioni di franchi contribuiscono 150 milioni di donazioni e finanziamenti da parte delle imprese e dei privati. E quello che all’inizio era stato visto come uno stravolgimento del ruolo dell’università, adesso crea progetti di grande valore in diversi campi scientifici.

    L’Italia però è ben diversa dalla Svizzera. A suo avviso si può essere ottimisti sulle prospettive di rilancio del sistema formativo italiano?
    Io tendo ad essere ottimista e lo sono per motivi precisi. All’EPFL arrivano molti giovani italiani e notiamo che un elemento fondamentale – la qualità del capitale umano esiste, eccome. E questo vuol dire che la scuola superiore italiana e le università fanno ancora bene il loro mestiere d’insegnamento. Si tratta solo di sfruttare adeguatamente queste competenze. Inoltre, rispetto a 10 o 20 anni fa, i tempi fra una scoperta e il suo sviluppo si sono notevolmente accorciati. Questo permette alle start-up di ottenere risultati in tempi rapidi: noi in Svizzera stiamo vedendo importanti passi avanti su questo fronte, ma credo che le condizioni per creare un circolo virtuoso simile ci siano anche in Italia.