L’Italia e il suo tessuto economico guardano con attenzione alla nuova amministrazione americana e alle implicazioni economiche, sociali e geopolitiche delle sue future scelte. Numerose sono le incognite, ma è probabile che il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca sia caratterizzato da un mandato più strutturato rispetto al primo. Il presidente eletto, infatti, può contare su una solida maggioranza al Congresso, che gli garantisce di poter operare per almeno due anni senza ostacoli.
Per quanto riguarda le politiche destinate ad avere un notevole impatto economico, in primo luogo bisogna considerare gli interventi sull’immigrazione che potrebbero incidere, sulla disponibilità di manodopera, generando nuova inflazione. Effetti opposti potrebbe avere, invece, l’accelerazione sulla deregulation, con un’enfasi particolare sull’aumento di produzione nel settore degli idrocarburi.
I riflettori del mondo, tuttavia, sono accesi soprattutto sulla politica commerciale. Il presidente eletto ha annunciato dazi per le importazioni fra il 10 e il 20%; una scelta, tutta da confermare, che rischia però di destabilizzare le relazioni transatlantiche e aumentare le tensioni fra gli Stati Uniti e i loro storici alleati in Europa e Asia. Si tratta di un sostanziale allontanamento dallo storico approccio americano verso un modello “America First” post-neoliberista, focalizzato sulla deregulation interna e sul protezionismo nel commercio internazionale. La strategia della nuova amministrazione potrà comprendere anche interventi sulla politica monetaria, con un cambio al vertice della Federal Reserve.
Di fronte a questi scenari, l’Europa è chiamata a rafforzare la propria autonomia strategica, ad iniziare dalla tutela della sua solida base industriale che rimane fondamentale per sostenere l’innovazione e i servizi. Le strategie per promuovere la competitività del settore manifatturiero devono essere comuni perché quello europeo è l’orizzonte naturale a cui guardano le diverse industrie nazionali. Quella continentale è del resto anche la taglia minima per competere con giganti economici come Cina e Stati Uniti, capaci di mettere in campo una notevole mole di investimenti nel sostegno al settore produttivo.
In un tale contesto, il Green Industrial Deal promosso dalla nuova Commissione potrebbe rappresentare una svolta per l’industria europea a patto che si agisca con pragmatismo. Il tema della sostenibilità, in particolare, deve diventare una leva di crescita e non un freno caratterizzato dall’ossessione per la compliance che, invece, rischia di soffocare la capacità innovativa di aziende e manager.
Al fine di indirizzare al meglio le politiche di sviluppo ed evitare gli errori del passato, continua a essere importante il ruolo degli organi di rappresentanza, in dialogo con le istituzioni nazionali ed europee. Le lobby, ben distanti dall’immagine negativa che spesso rivestono presso l’opinione pubblica, sono un elemento essenziale delle democrazie e permettono, in un dialogo trasparente con le istituzioni, di migliorare il processo decisionale, specie in un frangente in cui la politica appare sempre più slegata dalle istanze dei territori.
Per affrontare le sfide globali è necessaria, quindi, anche una corretta rappresentazione di dove si colloca il sistema industriale italiano: quella nazionale è un’economia in cui l’export — con un peso sul PIL del 30%, rispetto al 24% del 2013, e un considerevole aumento di valore dall’introduzione dell’euro a oggi — è trainato da un tessuto di piccole e medie imprese, costituite in filiere e leader in moltissime nicchie di mercato. Eppure questo tessuto, pur presidiando molti settori collegati alla transizione energetica, mostra le proprie debolezze in diversi campi innovativi. Si tratta di una situazione che è aggravata dalla ridotta dimensione aziendale (il 95% delle imprese italiane sono “micro”, con meno di 10 dipendenti), oltre che dalle carenze formative. L’Italia ha un tasso di laureati che non raggiunge il 30% e una dinamica demografica che mostra un notevole declino: l’età mediana del Paese è, infatti, di 48 anni, ben superiore a quella europea (45) e non paragonabile con il livello degli Stati Uniti che si collocano a 38 anni.
L’Italia deve migliorare la propria adozione di tecnologie avanzate per mettere a frutto i punti di forza che vanta nell’ideazione, nella creatività e nella capacità di promozione dei suoi prodotti. È necessario, in parallelo, lavorare sulla formazione e sull’attrazione di manodopera per sopperire i crescenti bisogni delle imprese. Si tratta di sforzi che non possono prescindere da un sostegno pubblico e dal corretto impiego della leva fiscale capace di sostenere la competitività e di favorire un aumento degli investimenti, con misure ad hoc per il reshoring. A dimostrarlo c’è il picco di produttività registrato con l’applicazione di Industria 4.0. Il sostegno al tessuto produttivo può arrivare anche da un sistema di cooperative compliance per le aziende più strutturate con l’obiettivo di offrire stabilità e rapporti più agili con il fisco.
Del resto il panorama che si delinea per i prossimi anni è complesso e le imprese italiane sono chiamate ad attrezzarsi al più presto. Il tessuto industriale ha già conosciuto un’importante ristrutturazione nello scorso decennio, con il manifestarsi delle prime tensioni commerciali. La nuova vittoria di Trump accelera il passaggio verso un’era post-globale, caratterizzata da ulteriori dinamiche protezionistiche con potenziali danni per le economie esportatrici. L’Italia deve essere quindi essere pronta a rispondere con una visione strategica che valorizzi il capitale umano, promuova l’innovazione e sostenga i vantaggi competitivi dell’industria per affrontare le sfide globali.