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L’industria al centro: resilienza e rilancio

  • Venezia
  • 30 Settembre 2022

        Il periodo di iperglobalizzazione iniziato negli anni ‘80 ha visto una frammentazione globale delle filiere produttive verso aree geografiche caratterizzate da costi di produzione inferiori. Tuttavia, nell’ultima decade tale fenomeno di offshoring è stato rallentato e in parte invertito. In tale contesto, la priorità delle imprese multinazionali si è spostata dall’obiettivo iniziale di ridurre i costi a quello di minimizzare il rischio di disruptions alle loro supply chains, incrementandone, dunque, la resilienza e garantendone un continuo e ininterrotto accesso ai mercati di riferimento.

        In tale quadro, la filiera produttiva delle imprese italiane che si era notevolmente “allungata” durante il periodo di iperglobalizzazione va drasticamente ripensata. I processi di localizzazione a cui si sta gradualmente assistendo si inseriscono in una logica di resilienza dove la produzione avviene vicino al mercato di riferimento (ad esempio local-for-local). Tale processo per l’Italia deve necessariamente realizzarsi all’interno di una piattaforma produttiva europea che ponga particolare attenzione ai seguenti aspetti: (1) la ricerca in energie alternative e l’adozione della neutralità tecnologica relativamente al processo di decarbonizzazione; (2) il completamento del mercato unico Europeo all’interno di un piano coerente per le infrastrutture e gli assetti territoriali; e (3) una politica delle risorse umane che favorisca l’integrazione della forza lavoro nel tessuto economico e produttivo del paese.

        La neo-filiera “corta” orientata al local-for-local deve essere considerata, oltre che un sistema produttivo, anche un sistema sociale. Si deve superare lo spirito di provincialismo che ha caratterizzato molte realtà d’impresa in Italia e generare esempi di collaborazione fra grandi e piccole aziende, nonché con centri di ricerca, scuole, e università. Per farlo è necessario muoversi su due direttrici: (1) disegnare una filiera di respiro europeo fondata sulla green economy, infrastrutture, digitalizzazione e big data, e (2) potenziare il sistema di servizi intorno alle filiere. Soprattutto la piccola e media impresa non ha sviluppato le competenze gestionali richieste. Tali competenze vanno costruite attraverso reti di servizi – soprattutto finanziari-  adeguate a supportare la transizione energetica e digitale con criteri di sostenibilità come i modelli basati sulla “servitizzazione”.

        Il concetto di accettabilità gioca un ruolo importantissimo nelle dinamiche della neo-filiera, in quanto l’opinione dei consumatori richiede sempre di più alle imprese di conformarsi a criteri di qualità e sostenibilità. Tali caratteristiche devono diventare parte integrante degli assets competitivi di un’impresa: o si producono prodotti sostenibili, o tali prodotti non entrano nel mercato. Questo presenta una sfida, ma anche un’opportunità per le imprese italiane di ripensare e ridisegnare prodotti e processi produttivi che si traducano in un uso meno intensivo di risorse, una predilezione per l’utilizzo di risorse presenti sul territorio e un incremento del processo di circolarità del prodotto all’interno del territorio.

        La sostenibilità come asset modifica il modo di produrre e partecipare nei mercati, e incentiva fortemente alla ricerca. La ricerca di base rimane fondamentale, ma deve anche tradursi in ricerca applicata radicata sul territorio. Esempi virtuosi in tal senso esistono, ma sono concentrati nelle regioni del Nord. Le motivazioni per cui simili realtà non emergono al Sud sono complesse e richiedono particolare attenzione.

        Il capitale umano in Italia riflette una serie di trend negativi: pochi laureati, alto analfabetismo di ritorno, fenomeno NEET (not in education, employment, or training) particolarmente nel Mezzogiorno, e difficoltà di accesso al mercato del lavoro per neo-laureati a causa di una bassa rispondenza dei corsi di laurea alle esigenze del tessuto produttivo. Ne emerge, dunque, la necessità di codificazione delle lauree con una accentuazione della qualità e quantità delle lauree STEM (inclusa la partecipazione femminile), purtuttavia promuovendo una cultura politecnica che combini conoscenze tecniche e umanistiche.

        Si evince, inoltre, che la formazione di lungo periodo rappresenta una condizione fondamentale per realizzare la transizione digitale e ambientale in maniera competitiva. In Italia, la qualità della scuola elementare è buona, lo è meno quella della scuola media inferiore che richiede uno svecchiamento della docenza e una maggiore partecipazione dell’imprenditoria privata. In aggiunta, la scuola superiore deve continuare nel processo virtuoso che mira a formare figure professionali di fascia intermedia negli ITS attraverso un curriculum “territoriale” in cui la scuola eserciti flessibilità nel creare e gestire i rapporti con le aziende. Questo è particolarmente importante al Sud, dove tale legame virtuoso fra scuole e imprese è particolarmente carente.

        Infine, il fenomeno dello smart-working sta impattando in maniera potenzialmente negativa sulla produttività del capitale umano. Il dialogo e il confronto tra la forza lavoro all’interno di imprese, uffici, e strutture professionali rappresenta un viatico fondamentale per la produzione e la condivisione di competenze volte all’innovazione. Esiste, dunque, un rischio che una contrattualizzazione dello smart-working inteso come “diritto” possa portare a una graduale riduzione del processo innovativo e impattare negativamente sulla mentalità di lavoro nelle aziende.

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