Pubblichiamo uno stralcio dell’intervista ad Emily Craig pubblicata sull’ultimo numero di Aspenia “Giochi di pace e di guerra“.
Che cosa c’è dietro i suoi successi?
Per quanto riguarda il mio successo individuale, al pari di molti altri atleti credo di essere stata oltremodo fortunata. Ho iniziato a praticare canottaggio all’età di 12 anni e ho avuto la buona sorte di avere genitori disposti ad accompagnarmi agli allenamenti e a comprarmi il mio primo skiff. Mia zia aveva rappresentato la Gran Bretagna nel doppio e nel singolo pesi leggeri, quindi immagino che i miei genitori avessero già un’idea della dedizione che richiede uno sport quale il canottaggio.
Nel corso degli anni ho avuto molti allenatori che hanno contribuito alla mia carriera remiera, ma negli ultimi otto anni sono stata allenata da Darren Whiter. Inoltre, con la mia attuale compagna di equipaggio, Imogen Grant, abbiamo dedicato tempo e sforzi per dare luogo a una collaborazione efficace, che ci consentisse di tirare fuori il meglio l’una dall’altra.
Devo dire che anche la mia personalità mi ha aiutato a raggiungere la fase in cui mi trovo oggi: sono estremamente motivata, testarda e pragmatica, il che credo mi abbia aiutato ad andare avanti, anche quando mi sono trovata ad affrontare sfide ardue. Senza dimenticare che essere parte di una nazione che ha alle spalle una storia di canottaggio tanto prestigiosa è stata anche una grande ispirazione.
Quando sono entrata in squadra nel 2015, ho potuto allenarmi al fianco di atlete incredibili, come Katherine Granger, con la quale, in un certo senso, sono cresciuta, vedendola vincere medaglie a livello internazionale.
Fare parte di un sistema di successo, insomma, ti permette di emulare le abitudini e gli atteggiamenti di coloro che hanno reso grande uno sport e di portarne avanti l’eredità.
Lo spirito olimpico esiste? In cosa consiste?
Lo spirito olimpico esiste, eccome. È l’unica occasione in cui gareggiamo come Team GB e non come “squadra britannica di canottaggio”: siamo parte di una squadra molto più ampia che comprende tutti gli sport. Il senso di cameratismo tra i diversi sport è qualcosa di veramente speciale e credo che incarni lo spirito olimpico.
Soggiornare al Villaggio è stato senza dubbio diverso da tutto ciò che avevo sperimentato fino ad allora e che non vivrò mai più, considerato che a Parigi alloggiamo in un hotel vicino al lago di canottaggio. Sì, è stato molto emozionante sentirsi nel cuore dei Giochi, circondati da tutti gli atleti della Gran Bretagna, ma anche da quelli delle altre nazioni in gara.
Il 2020 è stato decisamente deludente, e avevo pensato di ritirarmi, invece ho continuato a remare, e negli ultimi due anni ho ottenuto più successi di quanti ne avessi conseguiti in tutta la mia carriera di atleta.
Si parla sempre più di politica quando si parla di Olimpiadi. Tra atleti si discute di questi temi, per esempio di Giochi che si tengono in paesi autoritari, o di indumenti e attrezzature prodotti senza rispettare i diritti dei lavoratori? Trovi giusto che su questi argomenti si pretenda di più dallo sport, rispetto alla politica o al mondo del business, che quotidianamente interagiscono con quegli stessi paesi che lo sport è chiamato a boicottare?
Credo che in un mondo ideale lo sport non dovrebbe essere politicizzato. In realtà, però, lo sport è e sarà sempre politicizzato. Per me, l’obiettivo è sempre quello di competere e vincere. Se un atleta decide di fare una dichiarazione politica sfruttando l’attenzione dell’opinione pubblica derivata da una medaglia d’oro, è una sua decisione individuale, ma non è qualcosa che ci si debba aspettare da tutti. Certo, essere un atleta internazionale ti pone nella condizione di essere anche un modello, e quindi di toccare questioni davvero importanti, come quelle ambientali ad esempio. Ma è pur vero che nel mondo ci sono persone e aziende che hanno più potere di attuare un vero cambiamento su scala globale, rispetto a chi dedica la propria vita a remare in barca, a correre intorno a una pista o a tirare calci a un pallone.