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Attività

The US and Europe in the age of uncertainty

    • Washington DC
    • 5 Giugno 2017

          Nella prima conferenza tenuta a Washington da Aspen Institute nell’epoca Trump è stato discusso il futuro di una relazione transatlantica che vive tempi difficili ma resta indispensabile per la sicurezza europea. Il rapporto transatlantico, nelle sue varie dimensioni, è stato anche l’oggetto dei successivi incontri del 6 giugno “For a new Transatlantic compact: values, interests, policies” e dei due panel debate del 7 giugno.

          L’era Trump ha impresso alla politica estera ed economica degli Stati Uniti un cambiamento di strategia. Al tempo stesso la relazione tra le due sponde dell’Atlantico entra prepotentemente nella campagna elettorale in Francia e Germania. Se quest’ultima riscopre un ruolo di leadership e vede come irrinunciabile la tenuta di un’Europa a 27,  il fattore Macron  ha rilanciato l’impegno francese nella Ue, pur dovendo ancora raggiungere difficili obiettivi quali  la riduzione del deficit e l’avvio di una nuova stagione di riforme.

          La Germania dovrà affrontare quella che molti considerano una forte contraddizione: da un lato il surplus commerciale e dall’altro la collocazione tedesca nel contesto di sicurezza euro-atlantico con un livello di spesa non certo adeguato al potenziale del Paese.

          Suscita interesse l’apertura americana su eventuali nuovi accordi commerciali con l’Europa. Questo tema è stato centrale nella conferenza di Washington a cui hanno partecipato il nuovo Segretario americano al commercio Wilbur Ross e, collegato da Roma, il Ministro italiano Carlo Calenda. Un punto essenziale è che non sarà facile gestire il flusso commerciale Europa-USA senza un accordo, vista la complessità delle supply chain esistenti. Non va poi dimenticato il fattore Cina,  che ha raggiunto ormai dimensioni tali da determinare nuovi equilibri non più gestibili con  strumenti ereditati da un’era di incontrastata superiorità occidentale.

          Si è dunque suggerito un “TTIP light”, ovvero un primo passo su alcuni capitoli più strategici lasciandone altri più spinosi ad una seconda fase. Accordi limitati e specifici possono, infatti,  essere più efficaci grazie a tempi più rapidi di negoziazione e attuazione. Una visione, questa, che non piace tuttavia a diversi osservatori, in particolare per la relazione diretta tra “fair trade” e un quasi perfetto equilibrio bilaterale nella bilancia commerciale degli Stati Uniti verso i maggiori partner.

          L’economia americana deve affrontare molteplici sfide. L’occupazione innanzi tutto, e la ricetta è una sola (almeno per l’attuale amministrazione): deregolamentare il più possibile. La semplificazione è, infatti, la chiave per far ripartire settori strategici come ad esempio quello delle infrastrutture e delle costruzioni.

          Nel corso del dibattito si sono confrontate due visioni antitetiche. Da una parte stime positive per la crescita e i consumi americani, dollaro forte e petrolio basso, maggiore creazione di posti di lavoro nei servizi. Dall’altra chi sottolinea una minore crescita della produttività e il netto rallentamento nella creazione di nuove aziende. Inoltre, alcune aree del Paese stanno soffrendo duramente gli effetti disruptive della delocalizzazione dovuta sia alla tecnologia che alla competizione commerciale. Non mancano preoccupazioni in alcuni settori: automotive, retail e credito prima di tutto.

          Proprio da ragioni strettamente economico-industriali è stato motivato il recente annuncio del ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima: per gli americani – così hanno sostenuto esponenti dell’amministrazione Trump – adempiere immediatamente a costosi impegni avrebbe significato dare un considerevole vantaggio ai maggiori responsabili mondiali dell’inquinamento che avrebbero beneficiato di un posticipo dei costi.

          Rimane invece saldo l’impegno dell’amministrazione Trump nell’aiutare l’Europa a ridurre la propria dipendenza dagli approvvigionamenti da Est, che si sono dimostrati vulnerabili a fattori politici in più occasioni, certificando quanto sia evidente il legame tra sicurezza energetica e diversificazione delle fonti.  Sempre in tema di sicurezza è stato segnalato il pericolo di gravi vulnerabilità della rete elettrica.

          Cresce il peso relativo delle rinnovabili – un trend ormai globale – che non sarà  influenzato dalla posizione americana sul climate change. E  la transizione sta avvenendo a ritmi molto rapidi. Lo stesso peso del LNG sta diventando meno rilevante nel determinare il prezzo delle rinnovabili.

          Sul fronte della solidità del legame transatlantico il capitolo Nato continua ad essere complesso, pur mantenendo un ruolo strategico. La sicurezza transatlantica è di fatto indivisibile e il burden sharing è stato richiesto a più riprese dagli americani, fin dalla Presidenza Obama. Ma gli impegni finanziari non sono sufficienti a determinare la reale utilità degli asset messi a disposizione, mentre nell’equazione vanno considerati criteri qualitativi con cui  misurare le acquisizioni, l’addestramento, la volontà politica di schierare le forze disponibili.

          La natura asimmetrica degli impegni su cui si fonda la NATO è un dato strutturale dell’alleanza. Una parte della frustrazione sulle due sponde dell’Atlantico deriva dal contesto strategico, che non si presta alle tradizionali soluzioni offerte dall’art.5 sulla difesa collettiva. Si tratta di problemi emersi in modo evidente già nei lunghi anni dello schieramento militare in Afghanistan, soprattutto, in termini di proiezione di potenza e presenza sostenibile di forze in teatri lontani.

          Oggi la Russia pone alla Nato una sfida delicatissima: la scarsa efficacia della linea comune seguita fino ad oggi nel contenimento delle ambizioni russe altro non è che un segnale dei rischi di un indebolimento dell’Alleanza, laddove i Paesi membri  sembrano andare ciascuno per la propria strada.  Anche il terrorismo internazionale pone un dilemma per l’Alleanza, viste le caratteristiche mutevoli e sfuggenti della minaccia.

          Discorso analogo può essere fatto per la cybersecurity, che richiede strumenti e metodi innovativi, oltre che la costante cooperazione di attori privati.  I settori su cui è oggi necessario focalizzare gli sforzi per l’aumento delle capacità sono quelli come big data, robotics, machine-human interfaces. Un problema di fondo deriva dal carattere sempre meno nazionale delle aziende ad alta tecnologia, che dunque sono difficili da incorporare in una strategia domestica. Anche le maggiori piattaforme per la raccolta di dati, come i social network, sono ormai profondamente sganciate dai confini nazionali e sfuggono alla giurisdizione statuale, pur avendo una grande valenza tecnologica e di sicurezza.

          Economia, lavoro, politica estera, difesa e sicurezza: se Usa e Ue non troveranno – con fatica, ma con tenacia – un nuovo punto di equilibrio e standard differenti per governare la  globalizzazione, altri sono pronti a farlo. E certo non conviene né a Washington né a Berlino, Parigi,  Roma o Bruxelles: conviene piuttosto essere ambiziosi e puntare ancora una volta a scrivere le nuove regole del gioco per consolidare la storica alleanza.

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