Una montagna da scalare, una zavorra, un’ipoteca sul futuro dell’Italia. Nel dibattito italiano pochi argomenti si prestano all’utilizzo delle metafore ardite come l’ammontare del debito pubblico. Una cifra effettivamente colossale, pari a quasi 2.000 miliardi di euro, con un’incidenza sul PIL che supera la soglia del 123%. Dinanzi a questi numeri, e alla difficoltà persino di rappresentarli con efficacia, è evidente che il tema del risanamento della finanza pubblica esce dalla stringente cronaca politica per sconfinare nell’ambito, di più lunga gittata, della storia economica del Paese. Solo in chiave storica è possibile, infatti, decodificare le tendenze di lungo periodo che hanno condotto lo Stato italiano complessivamente inteso – amministrazione centrale, enti periferici e territoriali – ad accumulare un simile stock di debito. Uno stock che ad oggi “costa” circa 90 miliardi di euro all’anno di interessi passivi e che, se non “aggredito”, rischia di inficiare ab origine qualsivoglia prospettiva di ritorno alla crescita per l’economia italiana.
Proprio nel novero degli interventi a disposizione del decisore pubblico per attuare questa “aggressione”, sempre più frequentemente si discute dell’opzione rappresentata dalla dismissione di una parte del patrimonio pubblico, mobiliare e immobiliare. Tuttavia, preliminare a ogni intervento di questo genere non può che essere una valutazione oggettiva della consistenza del patrimonio medesimo. Tale ricognizione, per quanto riguarda anzitutto l’asset immobiliare, è ostacolata da anni dalla difficoltà mettere a punto una banca dati certa, che consenta di quantificare e mappare sul territorio, gli immobili di proprietà pubblica, oltreché naturalmente di comprenderne l’uso. Una parte rilevante di questi ultimi – circa il 70% del totale – è relativa infatti alle amministrazioni locali, ma solo il 53% di esse ha risposto al censimento obbligatorio avviato nel 2010 dal Tesoro.
Posta come condizione irrinunciabile questa sorta di due diligence, resta da capire, inoltre, quale sia in Italia oggi il mercato potenziale dei prodotti immobiliari (sia fisici, sia indiretti-finanziari), tanto più in una fase di crisi del settore tale da far registrare, per il secondo trimestre dell’anno in corso, una contrazione di circa il 25% delle compravendite, il valore peggiore dal 2004. Anche per questo motivo, per quanto un intervento sia evidentemente auspicabile, esso non può che avvenire a tre condizioni: non deve comportare effetti ulteriormente recessivi; deve evitare una segmentazione del debito che possa fornire ai mercati la percezione di una diminuzione delle garanzie complessive offerte dall’Italia; deve, soprattutto, avere una rapida e certa execution.
Il fattore tempo, in tal senso, assume un rilievo cruciale: il Paese non può permettersi il lusso di ulteriori dilazioni. In quest’ottica, spostando l’attenzione sul patrimonio mobiliare – e dunque sulla partecipazione pubblica nelle aziende e nelle pubblic utilities – va da sé che il confronto con le privatizzazioni avviate a partire dal ’92-’93 rischia di essere fuorviante. Sia per lo scenario generale meno propizio (con la rarefazione dei grandi acquirenti internazionali), sia per la resistenza politica trasversale affiorata negli ultimi anni ad esempio nei confronti di ogni opzione di riforma dei servizi pubblici locali, sia, infine, per l’oggettiva cautela necessaria quando in discussione ci sono la tutela della valenza strategica delle imprese e la promozione ultima degli interessi dell’azionista, cioè dello Stato.
Di certo c’è che tutte le risorse ricavate da un eventuale pacchetto di dismissioni potrebbero comportare un big bang di miliardi di euro, la cui destinazione andrebbe naturalmente tradotta in una programmazione selettiva della politica economica e non in interventi tampone utili a superare l’emergenza dei conti pubblici italiani. Da questa angolatura, quali che siano le modalità e la tempistica oggetto di proposte specifiche – tra cui la costituzione di una “newCo” ad hoc per la cessione del patrimonio e soprattutto per la sua valorizzazione – imboccare questa strada potrebbe tradursi in un’ulteriore prova di rassicurazione ai partner internazionali e ai mercati. In termini più semplici, aprire alla dismissione del patrimonio pubblico potrebbe fornire all’Europa e al mondo, dopo l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, la conferma che sul risanamento l’Italia fa davvero sul serio e intende rendere la spending review in senso lato un “esercizio permanente”, decretando definitivamente conclusa la stagione delle misure una tantum, delle riforme parziali, delle iniziative estemporanee.