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Attività

In search of security for European citizens: the rationale for a redesigned EU

    Aspen European Strategy Group
    • Roma
    • 1 Dicembre 2016

          Sebbene ciascun paese europeo abbia i propri cicli politici, oltre che specificità economiche, esistono alcune oggettive tendenze comuni sul piano delle dinamiche politiche – tendenze preoccupanti per l’impatto che possono produrre sulle scelte di policy. Il rischio principale è che si generi un circolo vizioso tra instabilità politica ed economica, sullo sfondo di una diffusa sfiducia verso tutte le istituzioni, nazionali e internazionali. L’elezione di Donald Trump conferma naturalmente che un forte livello di insoddisfazione caratterizza l’elettorato in tutte le economie avanzate, con effetti complessivi che sono ancora difficili da valutare. Nel quadro economico europeo, i ben noti problemi di fondo restano irrisolti: il debito (pubblico e privato), le debolezze dei sistemi bancari, le divergenze all’interno della stessa eurozona e i forti squilibri che secondo alcuni esperti richiederebbero i cosiddetti aggiustamenti “simmetrici” (tra paesi in deficit e paesi in surplus), la crescita lenta e la disoccupazione, in un contesto demografico sfavorevole all’innovazione.

          Sul versante positivo, i meccanismi per gestire eventuali shock sono migliori rispetto a pochi anni fa, e le linee d’azione per le riforme strutturali sono ormai largamente condivise (a prescindere dai dati contingenti). C’è anche un sostanziale consenso sull’esigenza di concentrare gli sforzi su politiche nazionali: la responsabilità primaria per molte riforme è dei singoli governi.  Tuttavia, rimane la tensione tra le esigenze collettive delle economie UE (con le relative regole comuni) e gli interessi specifici della Germania in quanto attore più forte e comunque centrale per qualunque mutamento di rotta.

          Ci sono, inoltre, ulteriori focolai di instabilità in arrivo dagli Stati Uniti: l’aspettativa di politiche fiscali espansive è particolarmente preoccupante per i paesi ad alto debito, mentre l’apprezzamento del dollaro potrebbe combinarsi a un aumento dei prezzi dell’energia nel complicare le prospettive della crescita europea, con un possibile ritorno dell’inflazione nella forma meno favorevole – cioè inflazione “importata”.

          Un delicato intreccio tra variabili economiche e politiche caratterizza anche il futuro degli accordi commerciali, che ormai sono spesso identificati come una manifestazione delle forze incontrollate della globalizzazione invece che come strumenti per gestirne gli effetti, e fornire alcune forme di protezione. Le ripercussioni della Brexit, ancora impossibili da valutare con precisione, aggiungono un fattore di incertezza per gli assetti del continente, anche se stanno –  quantomeno  – costringendo i policymaker e gli esperti ad adottare un atteggiamento più creativo.

          Le politiche migratorie europee hanno sofferto a lungo di un approccio non strategico e quasi puramente difensivo di tipo emergenziale. È ormai chiaro che sia le misure interne che quelle esterne vanno integrate con diversi settori di azione e devono tenere conto dei rapporti con partner difficili – a cominciare dalla Turchia. La mancanza di una visione di lungo periodo rende quasi impossibile mantenere linee di intervento costose, anche quando queste vanno nella giusta direzione, come ha dimostrato, tra l’altro, il caso della Germania rispetto ai flussi di rifugiati dalla Siria. Le ricette che possiamo genericamente definire “populiste” – pur nella vaghezza di questo termine – sono, comunque, caratterizzate da un’ottica di breve termine e dalla deliberata priorità data agli interessi ristretti di una comunità: non si tratta ovviamente di una prospettiva che favorisce la collaborazione europea, neppure a livello strettamente intergovernativo. Affrontare apertamente alcune questioni sentite come “identitarie” è necessario, ma non sarà facile mantenere un certo livello di coesione europea se prevale una linea di fatto nazionalista – oltre che nazionale – che scarica il peso dei flussi più intensi sui vicini e soprattutto sui paesi più geograficamente esposti. Proprio le recenti frizioni tra i membri della UE su altri dossier, anzitutto economici, rendono oggi più ardue le necessarie misure coordinate per meglio gestire la crisi migratoria e le sue gravi ripercussioni sociali e di sicurezza.

          Al di là delle crisi umanitarie  acute, le disparità economiche globali sono alla base dei fenomeni di mobilità umana e non saranno ovviamente rimosse dalle politiche di controllo dei confine o delle rotte: si richiedono dunque, in ogni caso, degli interventi di lungo termine sul piano della cooperazione economica e dello sviluppo socio-politico in regioni del mondo con un grande peso demografico. Si deve anche ragionare sull’apertura di canali legali per favorire alcuni flussi, di cui quasi tutti i paesi europei necessitano per ragioni economico-demografiche: questo è un dato di fatto praticamente dimenticato nel clima politico degli ultimi anni, che richiede inoltre rapporti con le regioni di origine – in larga misura non dunque quelli nordafricani e mediorientali bensì dell’Africa subsahariana e di alcune regioni asiatiche.

          L’importanza specifica della Libia come punto di transito per buona parte dei flussi è diventata più chiara a tutti gli europei, anche se un’azione congiunta per favorire la messa in sicurezza dei porti libici è un’operazione diplomatica e tecnica molto difficile nelle condizioni attuali.

          Le difesa europea è tuttora un concetto controverso, ma una serie di passi avanti si sono registrati con l’adozione della Global Strategy nel giugno 2016 e la consapevolezza che quasi tutte le maggiori sfide internazionali di sicurezza esigono una stretta collaborazione intra-europea. È cresciuta anche la consapevolezza che soltanto una accresciuta capacità comune europea potrà mantenere saldo il rapporto transatlantico in una fase di minore disponibilità americana a sostenere costi sproporzionati per la difesa degli alleati. Il futuro della NATO sarà poi influenzato direttamente anche dagli accordi pragmatici che si potranno raggiungere con la Gran Bretagna – e anzi l’Alleanza assume una valenza ancora maggiore a fronte delle difficoltà in campo commerciale, con il destino del TTIP del tutto sospeso.

          Non va dimenticato che la NATO ha svolto anche per decenni la funzione di nucleo effettivo di un ordine internazionale fondato su valori e regole occidentali: questo intero assetto è oggi messo in discussione, sia dal naturale mutamento degli equilibri globali sia dall’indebolirsi dei vincoli trasnsatlantici. Le implicazioni per l’Europa sono particolarmente gravi, visto che l’intera costruzione europea poggia su una visione “legale” e istituzionale dei rapporti interstatuali e della società.

          Due aspetti saranno decisivi per lo sviluppo di politiche di sicurezza e difesa più efficaci: investimenti più consistenti (anche in progetti comuni ove possibile), e meccanismi decisionali più rapidi e agili (che riducano i poteri di veto).

          I rapporti con la Russia saranno un primo test dei nuovi assetti euro-americani sotto la presidenza Trump, e gli europei devono valutare con attenzione gli effetti indesiderati delle sanzioni economiche, che hanno rafforzato gli impulsi nazionalistici nell’opinione pubblica russa pur imponendo oggettivamente costi significativi al governo di Vladimir Putin.

          Le numerose questioni aperte nella regione del Mediterraneo e Medio Oriente richiedono l’attenzione costante dei governi europei, anche perché in alcuni casi la responsabilità della sicurezza regionale ricade sempre più proprio sull’Europa. Le dinamiche socio-politiche della sponda sud rimangono tanto pericolose quanto erano prima del 2011, allo scoppio delle “rivolte arabe” che hanno reso evidenti i fattori di instabilità pur non riuscendo a superarli. Le ineguaglianze economiche e la sfida demografica – con una grande massa di giovani che non vedono prospettive nel proprio paese – sono tuttora i fattori determinanti del futuro della regione. Mentre le risposte dei governi sono quasi sempre inadeguate, le società civili sono deboli e ciò rende arduo anche stabilire rapporti proficui e solidi con la sponda Nord al di fuori dei canali ufficiali.

          Ciascun paese arabo dovrà, comunque, trovare un suo equilibrio dinamico tra il cambiamento (soprattutto nel rispetto concreto dei diritti civili) e un certo grado di stabilità (per garantire sicurezza di base e un ambiente adeguato agli investimenti).

          Le politiche dell’istruzione e della famiglia sono due settori-chiave per impostare un percorso virtuoso di mutamento graduale che aiuti a gestire in modo cooperativo le sfide della disoccupazione, dell’innovazione e modernizzazione, delle migrazioni, del terrorismo fondamentalista. Le riforme economiche dovranno puntare, inoltre, a ridurre il peso dei sistemi di welfare, migliorandone la qualità, ma orientandoli verso le fasce più deboli della popolazione.

          Molti stereotipi negativi tra le due sponde del Mediterraneo possono essere affrontati grazie a programmi di scambio durevoli nel tempo e che coinvolgano anzitutto le giovani generazioni, come nell’approccio perseguito dalla Stevens Initiative gestita da The Aspen Institute – una partnership multilaterale pubblico-privato concepita per accrescere gli scambi individuali tra giovani negli Stati Uniti e nella regione mediterranea e mediorientale. Nel tempo, l’obiettivo da perseguire è creare una vera “generazione trans-Mediterranea” che condivida alcuni valori fondamentali e sia aperta ad accogliere la diversità come un dato positivo invece che negativo.