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Attività

La sfida delle migrazioni. La “human mobility” e lo sviluppo nel XXI Secolo

    "The shock absorbing country"
    • Roma
    • 7 Luglio 2017

          Come dimostrano le tensioni con l’Europa, l’Italia è ormai nei fatti – ed è vista dai suoi partner continentali – come uno Stato cuscinetto: un paese deputato, nella nuova geopolitica mediterranea, a funzionare da “shock absorbing country”.

          Questa realtà ha naturalmente forti costi e forse anche qualche vantaggio; ad esempio, la maggiore flessibilità accordata all’Italia sul versante dei bilanci pubblici potrebbe anche essere una compensazione indiretta. O comunque segnalare che paesi come la Germania o la Francia hanno ormai deciso che spostare a Nord delle Alpi le frontiere europee non è certo nel loro interesse. Dopo la chiusura (per quanto precaria) della rotta dei Balcani, l’onda migratoria si scarica sulle coste italiane; nominalmente una frontiera europea, di fatto ancora e soprattutto una frontiera nazionale.

          In questo contesto, alquanto surriscaldato, le parole di Louise Arbour, rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite sulle migrazioni, servono sia a mantenere un senso delle proporzioni che a ricercare non semplici soluzioni, guardando oltre l’orizzonte immediato.

          Louise Arbour, che è intervenuta a una tavola rotonda organizzata da Aspen Institute Italia, ha messo in guardia contro lo scollamento fra percezioni e realtà. Nel caso dell’Italia, solo dieci anni fa il nostro saldo migratorio annuale superava il mezzo milione di persone, in un contesto in cui la disoccupazione era limitata. Oggi, e paradossalmente, è sceso a 135.000 persone: un saldo stabile rispetto all’anno precedente, come confermano i dati di Istat, ma che risulta da un numero crescente di ingressi (inclusi gli sbarchi: 180.000 persone) e di uscite, in un quadro in cui la disoccupazione giovanile è ormai al 37% e non esistono quindi le condizioni politiche per una forte apertura dei flussi lavorativi in provenienza dall’estero. Su uno sfondo del genere, i numeri percepiti diventano molto superiori alla realtà.

          Quanto alle possibili soluzioni, la discussione di Aspen ha oscillato fra ciò che sarebbe razionale e sensato nel lungo periodo e ciò che è politicamente praticabile oggi. Sul lungo termine – ci dice la donna che è incaricata di impostare una governance globale sul problema migratorio  – le politiche nazionali non dovrebbero essere orientate solo a “fermare l’emigrazione” ; anche perché resteranno troppo forti sia i fattori di spinta (conflitti e povertà) che quelli di attrazione (il bisogno strutturale di emigrati che l’Europa avrà nei prossimi decenni). Come mediare fra questi due piani che oggi sembrano così distanti?

          Ciò che Arbour propone è di puntare a sostituire gradualmente l’immigrazione irregolare, gestita largamente da organizzazioni criminali, con canali legali. Ma perché questa strategia possa funzionare abbastanza rapidamente, è necessario un “do ut des” chiaro ed esplicito con i paesi di origine. Prendiamo il caso della Nigeria, da cui oggi proviene la maggior parte delle persone salvate nel Mediterraneo. Il colosso africano non sarà mai disponibile a riprendersi decine di migliaia di propri cittadini espulsi dall’Europa in assenza di incentivi concreti. L’accordo di riammissione concluso dall’Italia non può funzionare, quindi, senza che venga stabilito un legame più diretto fra la gestione dell’immigrazione legale e la riapertura di quote legali di ammissione.  Come hanno ricordato tanti degli intervenuti, questo è uno degli insegnamenti, oggi apparentemente dimenticati, di un’epoca in cui l’Italia usava con un certo successo lo strumento degli ingressi legali come contropartita al controllo dei flussi dal Mediterraneo. Certo: la fragilità dei nostri interlocutori africani rende tutto molto più difficile. E senza accordi con l’Europa nel suo insieme, e non solo con l’Italia, questo tipo di “scambio” non funzionerà mai, visti i numeri in gioco. 

          Può sembrare contro-intuitivo che la riapertura di quote nazionali di immigrazione legale sia uno degli strumenti ( ce ne vorranno molti altri) per combattere la crisi migratoria attuale. Ma la realtà è che senza un vero trade-off con i paesi di origine (per ogni persona rimpatriata ne verranno accolte legalmente altrettante), il controllo dei flussi non sarà possibile. L’Italia non può che continuare ad investire in questo tentativo. Un fallimento sull’immigrazione metterebbe alla fine in discussione la nostra capacità di conciliare democrazia e principi liberali. I partner europei dell’Italia dovrebbero capire che questa è la vera posta in gioco, invece che limitarsi a vedere nel nostro paese solo un comodo argine.

           

          Una versione di questo articolo è apparsa su La Stampa del 9 luglio 2017.