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Attività

Italia 2040: superare la crisi verso un nuovo contratto sociale

    • Venezia
    • 8 Ottobre 2021
    • 10 Ottobre 2021

          Sarà il confronto geopolitico Stati Uniti – Cina a dominare gli anni a venire. Washington ritiene persa la scommessa di coinvolgere la Cina nell’ordine liberale che la stessa Pechino considera illegittimo. E, quindi, perché il confronto non diventi scontro– o addirittura guerra – sarà necessario trovare un terreno di collaborazione su tematiche globali in uno spazio altrimenti dominato da aspri contrasti. Differentemente dal Congresso, è il mondo economico americano ad avere rapporti e interdipendenze molto forti con il sistema economico cinese.  Inoltre, il recente fenomeno della corporate America testimonia come gli equilibri dipendano sempre meno da attori come gli Stati e sempre di più da grandi realtà aziendali che si parlano tra loro piuttosto che dialogare con realtà statuali e istituzioni. Sta, quindi, certamente cambiando il paradigma: e la pandemia non ha fatto altro che accelerare processi già in atto.

          Per l’Europa il rischio è concreto: a fronte di un eventuale accordo tra Stati Uniti e Cina, l’Unione potrebbe restare fuori dai giochi, rischiando un periodo di grande incertezza. Di conseguenza non solo è necessaria una corretta gestione del Recovery Plan, ma ci deve essere una grande coerenza tra agenda europea esterna e interna. Per l’Europa in ogni caso esistono anche motivi di speranza come dimostrano le elezioni tedesche: l’alta affluenza alle urne, intorno al 76%, il contenimento della destra estrema e il poco spazio per l’estremismo di sinistra sono un modo per dire che la democrazia liberale occidentale funziona.

          A livello globale la situazione macroeconomica resta però volatile e spesso prevalgono sfiducia, diversa percezione delle priorità e differente sensibilità rispetto alla minaccia se, come è vero, la Cina  da una parte formalmente condivide ad esempio transizione energetica considerata ineludibile dall’Occidente, ma poi – nei fatti – riattiva le centrali a carbone. L’uscita dalla pandemia pone una serie di questioni prioritarie: come venire fuori da politiche monetarie ultra-espansive, come incanalare la liquidità, come rientrare dalla massa di debiti pubblici e privati e, infine, come stabilizzare beni e servizi nelle catene produttive globali. Questioni di fronte alle quali non esiste ancora quella volontà politica di coordinamento e cooperazione che sarebbe necessaria per trovare soluzioni adeguate.

          In Europa, e non solo, la pandemia ha enfatizzato dunque fenomeni già esistenti: la crescita delle disuguaglianze e del conflitto generazionale nonché il fenomeno crescente di opinioni pubbliche sempre più polarizzate e divise. Va, quindi, fatto un lavoro di ricomposizione delle divergenze e una ritessitura delle divisioni generazionali insieme ad un abbattimento delle disuguaglianze per non dare spinta ad una montante rabbia sociale. Senza dimenticare l’elemento debole della demografia: dal 2014 l’Italia perde natalità e ad oggi 1,5 milioni di nuovi italiani sono stranieri 800.000 son e gli italiani nati all’estero sono 800.000. E con la pandemia il numero di civili morti ha quasi raggiunto quello della Seconda Guerra Mondiale.

          COVID-19 ha indotto e continuerà ad indurre, nel mondo e anche in Italia, una rimodulazione del mondo del lavoro, presentando un conto pesante di 6 miliardi di ore di lavoro in meno, pagate con la cassa integrazione. Si sono accentuate le disuguaglianze tra i lavoratori, sono cresciute marginalità dei working poor e dumping sociale. Inoltre, il Censis ha stimato in 21 miliardi la cifra che manca al sistema Italia per un inesistente incontro tra domanda e offerta. Un contributo alla soluzione di questo problema può venire dalla formazione dove la grande novità è rappresentata dagli ITS frutto di una complessa intesa tra imprese e mondo del lavoro che ci si augura non venga stravolta da proposte tuttora in campo.

          Anche il fisco resta un tema centrale. Nessun paese europeo in realtà ha prodotto grandi riforme. In Italia i tempi potrebbero essere maturi per ipotizzare una riforma che tenga conto del cambiamento in atto: riflettere ad esempio se possa ancora avere senso un’imposta duale – progressiva sul lavoro e proporzionale sui redditi. E anche sulla proposta di riforma del catasto in Italia non si può dimenticare – ed è un problema molto serio – che il debito causato dai mutui ammonta a 300 miliardi.

          Di fronte ad alti livelli di diseguaglianza e difetti di produttività, all’inefficienza della Pubblica Amministrazione, alla crisi del terziario e a quella dello Stato non basta creare tavoli provvisori o mettere in campo sussidi e interventi congiunturali. Serve un nuovo patto sociale. Rispetto al passato però sono cambiati i parametri e soprattutto il tavolo non dovrà esclusivamente finire in un nuovo sistema di redistribuzione dei redditi, ma dovrà mettere a punto un metodo per ricostruire una distribuzione della ricchezza sufficientemente equilibrata, e non così diseguale da mettere a repentaglio la tenuta del tessuto sociale.

          Se serve un nuovo patto sociale va anche tenuto conto che condizioni e protagonisti sono diversi da ieri. I contraenti collettivi del passato – partiti, sindacati, istituzioni locali – non sono più gli stessi anche, e soprattutto, a motivo della perdita di forza e legittimazione dei corpi intermedi: i partiti hanno oggi un ottavo della membership che avevano nell’immediato dopoguerra e tra gli iscritti ai sindacati prevalgono i pensionati. Un nuovo contratto sociale va declinato soprattutto nei luoghi e nei territori facendo riferimento anche ad esempi positivi come quello della cosiddetta Etna Valley: un’alleanza tra comune, università, sindacati e imprenditori con investimenti di straordinario livello che hanno portato nell’area fino a 1500 ricercatori di alta tecnologia. Uno schema che può funzionare anche in un ambito più generale.

          Il Patto per l’Italia per ora – hanno osservato alcuni – è solo un titolo: potrà servire nella misura in cui sia in grado di convogliare l’energia positiva propria di questo periodo in un dialogo ricco e costante che potrebbe essere il segnale della volontà di uscirne tutti insieme. Gli scenari futuri, proiettati al 2040, non sono semplici né scontati sia per il lavoro sia per l’organizzazione e la coesione sociale. C’è chi sostiene che a lungo termine il lavoro non sarà più centrale nella vita e soprattutto cambierà la sua composizione: nel 2040 la popolazione attiva sarà composta per il 60% di creativi e solo il restante 40% farà lavori esecutivi. Con un impatto non indifferente sull’organizzazione del lavoro nelle aziende e una relativa scomparsa dei livelli attualmente sottopagati. E resterà anche molto tempo libero. E allora la questione sarà come impiegarlo. Utopia o distopia? Questa è la domanda che nei prossimi anni resterà centrale. E non sarà facile trovare le risposte.

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