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Attività

Il futuro del servizio televisivo pubblico nell’era digitale

    • Roma
    • 11 Maggio 2016

          A cosa serve la RAI? Ha ancora senso parlare di servizio pubblico radiotelevisivo?

          Più di 40 anni fa la Corte costituzionale salvò il monopolio perché c’erano poche frequenze e il servizio pubblico era l’unico a garantire le libertà costituzionali. Invitò il Parlamento ad assumersi le responsabilità di indirizzo e controllo della RAI e impose all’azienda concessionaria di rappresentare e raccontare il pluralismo sociale e culturale del Paese.

          Oggi solo con il digitale terrestre sono disponibili oltre 800 canali, più del doppio sulle piattaforme satellitari; e poi c’è internet. Il passaggio dall’era analogica a quella digitale ha modificato l’essenza stessa del mondo della comunicazione. Eppure non sembrano venute meno le ragioni che giustificano un servizio pubblico.

          Nella società dell’informazione, dove l’innovazione scorre sulle autostrade informatiche, tanto è cambiato. La platea televisiva è divenuta liquida e sfuggente, le generazioni più giovani utilizzano internet per realizzare e fruire frammenti di televisione e i ceti medio-alti creano con il video-on-demand il proprio palinsesto.

          In questo nuovo contesto è fondamentale garantire a tutti, qualsiasi sia il reddito e il livello culturale, una quantità minima di contenuti affidabili e di qualità. Quelli necessari affinché ogni cittadino possa esercitare a pieno i propri diritti nella società digitale. Si tratta di informazione, di sport, di intrattenimento, di fiction, di divulgazione storica e scientifica, di programmi per bambini. Ma non solo. A tutela dell’identità nazionale – che giustifica l’eccezione alle regole europee sulla concorrenza – il servizio pubblico deve farsi “volano” per rendere competitiva a livello globale l’industria nazionale dell’informazione e dell’immaginario. Oltre, naturalmente, a essere il principale veicolo della diffusione della cultura digitale. Premessa essenziale per superare il digital divide.

          Molti i problemi aperti. Tra i più rilevanti, due giuridici, uno di valenza filosofica. Tutti e tre di grande impatto politico. I due giuridici toccano i valori costituzionali e la normativa europea. Ci si chiede, infatti, se la governance introdotta dalla legge 220 del 2015 rispetti lo spirito delle sentenze della Corte costituzionale che fanno del Parlamento l’editore della RAI. Il problema con l’Europa è se la contabilità separata sia sufficiente a distinguere ciò che l’azienda concessionaria produce con il canone e quello che, invece, è frutto degli introiti pubblicitari.

          Infine, ma la questione è fondamentale, in un momento di ridefinizione ruoli e funzioni, in molti si chiedono se si “è” o si “fa” servizio pubblico ? Cioè le funzioni di servizio pubblico della comunicazione (espressione forse più calzante di quella di servizio pubblico radio-televisivo) sia da attribuire a un solo soggetto o possa essere assegnata (con la conseguente distribuzione degli introiti del canone) a più soggetti in base alle cose che producono e trasmettono.

          Il mutato concetto di “servizio pubblico”, alla vigilia del rinnovo della Concessione, della Convenzione e del Contratto di servizio, impone una riflessione approfondita per ridefinire offerta editoriale, peso e ruolo internazionale e organizzazione della RAI. L’obiettivo è quello di fare del servizio pubblico una realtà viva, vivace, il cui ruolo sia universalmente riconosciuto.

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