L’economia degli Stati Uniti continua a mostrare segni di crescita molto forte e diffusa, sebbene alcuni indicatori suggeriscano possibili problemi futuri. Una visione relativamente ottimistica evidenzia il fatto che non ci sono squilibri finanziari importanti, soprattutto perché le imprese stanno andando bene. Storicamente, a meno che il settore immobiliare non sia direttamente coinvolto in una crisi di fiducia, anche correzioni significative del mercato azionario non causano recessioni. Il mercato immobiliare ha effettivamente rallentato, ma solo nella misura in cui ciò era previsto, e i prezzi correnti sembrano essere sostenibili.
L’altro precursore principale delle recessioni precedenti è stata la stretta monetaria della FED, che attualmente non sembra alle viste, almeno nel breve periodo.
Guardando ai potenziali fattori esterni che influenzano i tassi di crescita americani, è molto improbabile che un forte rallentamento o una recessione nel resto del mondo – come ad esempio nei mercati emergenti o in Europa – abbiano ripercussioni sull’economia statunitense nel suo complesso.
Secondo stime condivise da diversi esperti, nei prossimi due anni si prevede una crescita del 2,5% e questo significa che l’attuale tendenza positiva continuerà anche durante la prossima campagna presidenziale.
Restano tuttavia serie preoccupazioni, che inducono a un maggior scetticismo, riguardo al settore finanziario, compreso l’indebitamento delle imprese, nonostante la forza dell’economia reale. Inoltre, alcuni problemi strutturali ereditati dall’amministrazione Trump non sono stati realmente affrontati, in particolare la scarsa qualità dell’occupazione in molti settori dell’economia, la crescita relativamente bassa della produttività e le carenze infrastrutturali.
Per quanto riguarda le tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti, gli analisti concordano sul fatto che il problema più preoccupante sono le ripercussioni indirette delle differenze presenti e future, sia sull’economia degli Stati Uniti, almeno a livello potenziale, sia sulla crescita globale.
La sfida sarà quella di rispondere all’ascesa della Cina in modo intelligente, poiché l’influenza che gli Stati Uniti – ed anche le economie più avanzate nel loro complesso – possono oggi esercitare su un’economia così grande è limitata. L’approccio di Trump incontra un serio ostacolo nel fatto che, dai negoziati in corso con Pechino non s’intravede ancora una strategia “vincente”, e gli standard di riferimento per valutarne i risultati sono poco chiari.
Vi è un ampio consenso negli Stati Uniti (anche tra i democratici e larga parte del mondo imprenditoriale) sulla necessità di tener testa alla Cina in vari settori chiave. Nel campo delle alte tecnologie, la competizione è particolarmente agguerrita e non si attenuerà. Al di là di qualche tregua tattica e temporanea, è difficile prevedere un accordo su ampia scala, dal momento che la spinta cinese verso prodotti di fascia più alta, così come verso l’innovazione e l’istruzione di livello superiore, non può essere fermata.
A causa di questi fattori strutturali, lo spazio di manovra politico di Trump per proclamare la vittoria dopo un accordo commerciale parziale è molto limitato e le tensioni, probabilmente, continueranno tra alti e bassi.
In questo contesto, anche ipotizzando una continuazione delle attuali politiche commerciali da parte di Washington, i volumi di scambio globale non cambieranno necessariamente molto, ma poiché cambiano invece i modelli, ciò potrebbe avere effetti negativi sui benefici complessivi del commercio. Inoltre, l’interferenza di preoccupazioni relative alla sicurezza può spesso danneggiare decisioni economiche basate sul mercato. Potremmo dire, in sostanza, che la qualità del processo di integrazione globale sta subendo un declino.
Dal momento che le tensioni tra Stati Uniti e Cina non sono risolte, l’Europa potrebbe tentare di ottenere dei vantaggi a breve o a medio termine – a spese degli Stati Uniti – ma questa prospettiva è fortemente limitata da considerazioni di carattere strategico. In ogni caso, ulteriori trattative con con Pechino verranno avviate per gestire i rapporti economici in un contesto globale più difficile, e questo potrebbe incidere, a un certo punto, sui calcoli americani. Il peggior dilemma per l’Europa sarebbe quello di essere costretta a scegliere fra la tradizionale cooperazione transatlantica e un più profonda rapporto con la Cina.
In linea più generale, è ormai evidente che è difficile stabilire quale “grande strategia” (intesa come una coerente combinazione di interessi economici e di sicurezza) l’UE voglia e possa perseguire, date le debolezze dei suoi processi decisionali e le differenze tra i suoi Stati membri più importanti. Alla luce di un graduale disimpegno degli Stati Uniti da alcuni contesti geopolitici e organizzazioni multilaterali, la vecchia questione dei rapporti con la Russia riemergerà probabilmente con più urgenza e il Medio Oriente potrebbe diventare una regione ancora più instabile. Nessun importante cambiamento geopolitico, tuttavia, sembra imminente da un punto di vista europeo, in parte proprio perché l’Unione Europea, in generale, incontra enormi difficoltà nell’avviare grandi innovazioni politiche.