Non si fa fatica ad usare la parola boom per l’economia americana, una definizione giustificata dai 21 mesi di crescita vidimati dal prestigioso National Bureau of Economic Research. Un dato comunque storico e avvicinabile forse soltanto a quello degli anni ‘60 della Presidenza Kennedy e poi Johnson e ai primi anni dell’era Reagan. E il fiscal stimulus presenta cifre imponenti – quasi 6 trillioni di dollari – ben superiore a quanto venne stanziato all’epoca del New Deal e nel periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra mondiale.
Inoltre, per effetto del quantitative easing i tassi rimarranno bassi per un lungo periodo e verrà iniettata liquidità nel sistema, dando così ulteriore protezione alle banche e ai loro bilanci. Infine, l’aiuto della banca centrale al sistema delle imprese è stato, e rimarrà, di un livello mai visto prima. Nel medio termine sarà necessario fare molta attenzione a due forti elementi di rischio: inflazione e debito crescente.
In Europa i dati sulla crescita sono incoraggianti e in particolare l’area euro raggiunge una crescita del 3,9 %. Ma non si tratta di un dato omogeneo, bensì fortemente divaricato. A preoccupare è la Germania che non va oltre il 2.5% a fronte, ad esempio, di un dato francese del 3.3%. La differenza è dovuta soprattutto alla forte crisi delle supply chain, indotta essenzialmente, ma non solo, dalla pandemia. La diversità nella crescita sta portando a politiche macroeconomiche divere da Paese a Paese: pur essendoci in Europa un unico quadro macroeconomico in realtà poi ad essere diverse sono poi le singole strategie macroeconomiche .E anche per l’Europa non si può dimenticare il rischio inflazione il cui valore medio è intorno al 4,4% complessivo. Con notevoli differenze per i singoli Stati: si parte dall’1.4% a Malta, per arrivare alle 8.2% in Lituania. A preoccupare è ancora una volta il dato tedesco che è intorno al 4.1% (in Italia al 3.1%).
La Cina, a sua volta, resterà su una propria traiettoria: un capitalismo di Stato controllato dal Partito, secondo una logica rafforzata da Xi Jin Pin negli ultimi anni. Le prospettive di crescita dell’economia cinese indicano cifre mai registrate prima d’ora – 2% contro i precedenti 6 o 6.5% – così basse da impattare in modo rilevante sull’economia internazionale. Se infatti l’economia cinese cresce così poco contribuirà in misura minore rispetto al passato all’espansione del sistema economico internazionale. Al tempo stesso però la Cina sta assumendo atteggiamenti più assertivi negli equilibri internazionali, motivata dal desiderio di assumere un peso geopolitico sempre più rilevante.
La tendenza non sembra essere la convergenza fra le maggiori economie mondiali, bensì una sostanziale divergenza: Pechino crede ormai che gli Stati Uniti siano avviati a un inesorabile declino, e dal canto loro, America ed Europa hanno scoperto la vulnerabilità delle catene globali del valore e si difendono puntando ormai sul controllo delle tecnologie sensibili.
Cresce, infatti, il ruolo della tecnologia nel sistema economico e, in particolare, aumenta la percentuale di aziende che utilizzano l’intelligenza artificiale. Peraltro i numeri sono ancora prevalentemente bassi, ma esistono molte opportunità che vanno sfruttate al meglio. La crescita di Cloud, del 5 G e del Wifi in genere ha portato ad una democratizzazione dell’analisi dei dati: chi in futuro andrà in questa direzione ne trarrà indubbi vantaggi. L’introduzione dell’intelligenza artificiale non impatterà però soltanto sui lavori a bassa qualifica: per la prima volta saranno a rischio anche i tipi di lavoro più qualificati. Continuerà la tendenza alla scomparsa dei quadri intermedi e le strutture diventeranno sempre più piatte.
Esistono nei confronti dell’intelligenza artificiale ancora molte barriere e una diffusa mancanza di fiducia. Va chiarito che bisogna sapersi fidare partendo dal presupposto che l’analisi dei dati fatta attraverso l’intelligenza artificiale sarà in ogni caso molto utile. Nelle aziende oltre queste barriere relative alla fiducia esistono ostacoli dettati dalla percezione di mancanza di competenza che, secondo una recente indagine, colpisce il 33% dei dipendenti.
Eppure, il mondo del lavoro continua a cambiare vorticosamente tanto che la legislazione relativa alla tecnologia rischia di diventare obsoleta nel momento stesso in cui entra in vigore. Nel primo periodo pandemico l’uso del telelavoro nelle aziende è schizzato dal 5% al 37% e contemporaneamente si è venuto a creare un nuovo digital divide tra persone qualificate – 50% – e persone poco qualificate – 19%. Da aprile ad agosto 2021 negli Stati Uniti si sono dimessi per l’effetto pandemia più di 20 milioni di lavoratori, un enorme movimento di forza lavoro che questa volta non ha riguardato solo i lavoratori di livello basso, ma anche quelli altamente scolarizzati, con il rischio di un inatteso shortage in ogni tipo di mansione.