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Attività

Assessing risk: business in global disorder

    The Aspen Dialogue
    • Venezia
    • 8 Marzo 2019

          Le prospettive del sistema globale – tanto in termini economico-finanziari quando politico-strategici – sono caratterizzate dalla mancanza di un chiaro principio ordinatore. Non c’è dubbio che l’ordine internazionale stia cambiando, ma vi sono gravi rischi di frammentazione e di insufficiente governance, a fronte di problemi che non possono essere gestiti a livello nazionale e forse neppure regionale – dalle regole della finanza a quelle sui big data e la privacy, dal cambiamento climatico alle migrazioni. L’alto tasso di interconnessione crea il pericolo costante di effetti-contagio, per cui è necessario guardarsi sempre da errori di calcolo che possono sembrare di entità minore, e dalle conseguenze non intenzionali di scelte politiche apparentemente innocue.

          Sul piano economico, il rallentamento della crescita globale non dovrebbe essere drammatico secondo quasi tutte le previsioni e, nonostante le tensioni commerciali, gli scambi internazionali sono destinati a rimanere un fattore trainante; inoltre, alcune importanti misure sono state introdotte da molti Paesi (in parte in modo coordinato) per limitare l’impatto di un’eventuale stagnazione o perfino recessione. Rimangono comunque serie preoccupazioni per il settore bancario, per il debito complessivo (pubblico e privato), e per l’aumento delle diseguaglianze soprattutto all’interno dei confini nazionali – con le inevitabili implicazioni politico-sociali che possono assumere varie forme. Un possibile rischio viene dal prolungarsi di misure prese durante la fase acuta della crisi del 2008, soprattutto in termini di politiche monetarie, che hanno prodotto distorsioni significative. Si aggiunge a ciò il fatto che alcune economie emergenti sono particolarmente vulnerabili a shock esterni, con possibili ripercussioni politiche e di sicurezza almeno a livello regionale.

          Guardando all’Europa, il problema principale sembra essere quello di una sorta di paralisi decisionale, o comunque di scelte condivise che risultino poco tempestive a fronte dei tempi compressi di vari fenomeni globali. Intanto, le forze sovraniste che stanno crescendo di peso in tutti i Paesi della UE tendono a considerare i rapporti intra-europei come un gioco a somma zero, rendendo quasi impossibili politiche coordinate e una maggiore integrazione di regole e mercati: al contrario, una migliore efficienza delle politiche europee richiede disponibilità a una condivisione dei rischi. D’altro canto, la capacità dei partiti più sovranisti/populisti di raggiungere una massa critica nelle istituzioni europee è limitata proprio dall’esistenza di partiti analoghi in molti Paesi-membri, vista la difficoltà intrinseca che incontrano nel formare alleanze durevoli al di fuori dei confini nazionali.

          Da parte loro, gli Stati Uniti soffrono di gravi tensioni interne e di un funzionamento certo non ottimale del sistema politico – dunque anche dei processi decisionali ai più alti livelli. L’aggiustamento di alcune politiche tradizionali, per quanto necessario, sta verificandosi in modo spesso non ponderato e senza tenere conto di implicazioni indirette e di medio-lungo termine. L’approccio unilaterale privilegiato dall’amministrazione Trump può recare danni duraturi alla governance multilaterale, già largamente inadeguata a gestire molti dossier transnazionali, ma comunque utile a ridurre le tensioni e i pericoli di un insufficiente scambio di informazioni.

          Il quadro geopolitico ed economico del Medio Oriente continua ad essere fortemente conflittuale e instabile: tre gravi focolai violenti (Siria, Yemen, Iraq), almeno un “failed state” come la Libia, un’accesa competizione per l’influenza regionale anzitutto tra Iran e Arabia Saudita (con Israele in una posizione attualmente allineata a quella saudita sul dossier iraniano), ma anche la spinta esterna di varie potenze assertive come Turchia e Russia. Non sta emergendo alcun vero meccanismo cooperativo multilaterale, mentre aumentano le incertezze legate alla riduzione della presenza americana. Intanto, la situazione socio-economica all’interno di vari Paesi (ultima l’Algeria) non è fondamentalmente cambiata rispetto all’ondata di proteste del 2011. L’ambiziosa agenda riformatrice della nuova leadership saudita (e l’attivismo di altre monarchie del Golfo) presenta luci e ombre, ma per ora non contribuisce a creare un clima di maggiore fiducia in ambito regionale – se si eccettua un obiettivo miglioramento dei rapporti con Israele che però va ancora testato nell’ottica di un possibile nuovo negoziato sulla questione palestinese.

          La Cina costituisce il maggiore fattore di mutamento degli equilibri globali, anche perché la crescita del peso cinese riguarda ormai anche i settori a più alta tecnologia. L’atteggiamento americano, in modo quasi repentino, si è trasformato in direzione non solo di una sorta di “contenimento” verso Pechino ma addirittura di un vero e proprio confronto nell’ottica di una protratta “guerra fredda”. Tuttavia, le analogie con l’Unione Sovietica sono assai fuorvianti, visto che la Cina è strettamente integrata nelle catene mondiali del valore e ha un sistema politico al contempo dirigista e autoritario, ma per molti versi pragmatico e aperto alla sperimentazione. La sfida per il sistema globale è complicata dalla rapidità dei cambiamenti in atto – soprattutto nell’applicazione di tecnologie digitali – ma anche dai vari squilibri interni che rendono il governo di Pechino non sempre prevedibile a fronte di una società civile non più passiva e di forti spinte nazionalistiche. Il contesto regionale dell’Asia orientale e sudorientale presenta inoltre numerose faglie conflittuali, il cui livello di pericolosità è stato finora limitato dalla massiccia presenza americana con una rete di alleanze piuttosto stabile; una situazione che è ora soggetta a nuove incertezze sia da parte di Washington che di alcuni dei maggiori alleati asiatici. Su questo sfondo, l’Europa rischia di trovarsi schiacciata tra la volontà di sfruttare al meglio i rapporti economici con la Cina e le pressioni americane per tenere in conto i fattori di sicurezza: un’ulteriore fonte di possibile divergenza nel delicato rapporto transatlantico.