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Aspen Italia Initiative on Africa

  • Roma
  • 29 Novembre 2023

        L’idea della collaborazione fra Europa e alcuni Paesi dell’Africa, attraverso partenariati economici che superassero l’eredità colonialista, risale già agli anni Sessanta del XX secolo, con l’Italia come parte attiva. La riproposizione di questo concetto nel periodo attuale merita, dunque, grande attenzione e approfondimento, anche con allo scopo di correggere o attualizzare alcune delle sue caratteristiche iniziali: oggi va sicuramente coinvolta la componente imprenditoriale privata nella costruzione di legami con le controparti nel continente africano, strategia che non era così scontata nei decenni passati.

        È importante notare che le tensioni sociali – sotto forma di conflitti etnici, politici, religiosi, nazionalisti – sono in aumento nel continente africano, non solo nelle aree a più basso reddito, ma anche in quelle a reddito medio, provocando un ingente flusso di emigrati. La componente imprenditoriale privata, insieme al soggetto finanziario rappresentato dai fondi sovrani d’investimento, rappresenta una leva possibile, da una parte per ammortizzare gli effetti dei conflitti, dall’altra per evitare che questi si ripropongano irrobustendo sia i tessuti sociali che le strutture pubbliche dei Paesi in questione. Gli investimenti internazionali privati – integrati in un network locale pubblico-privato – potrebbero così trasferire e facilitare nei Paesi africani lo sviluppo di quegli strumenti e competenze già presenti e cruciali negli ambiti più dinamici in cui si muove l’economia del XXI secolo: la transizione energetica, l’innovazione agroalimentare, la lotta al cambiamento climatico, la digitalizzazione e il sistema di cura e assistenza.

        Per l’Italia, offrire il massimo interesse e coinvolgimento in questo tipo di processi dovrebbe essere una scelta strategica, lungimirante e naturale, data la posizione geografica del Paese e le mutate esigenze geopolitiche in seguito alla rottura con la Russia. Proiettata al centro del Mediterraneo, in posizione di ponte tra due continenti che mai come in questi anni dialogano intensamente su molti fronti – da quello della sicurezza a quello dell’energia, da quello della geopolitica a quello del clima – l’Italia dovrebbe superare al più presto il proprio ritardo e le proprie incertezze di lungo periodo, elaborando una coerente mappatura dei propri interessi internazionali che includa una “politica africana”.

        L’Italia, nella relazione con i Paesi africani, ha privilegiato finora gli interessi economici, ed in particolare energetici, concretizzatisi soprattutto attraverso l’azione di Eni. Un buon successo, senz’altro, ma settoriale e disorganico se visto dal punto di vista delle esigenze nazionali più ampie. Il fattore migrazioni ha aumentato l’attenzione della classe politica per quello che accade a Sud della penisola; non si è arrivati, però, a definire con precisione quali siano gli interessi nazionali da perseguire e difendere al riguardo, mantenendo, invece, un approccio emergenziale e strumentale alla questione. Né la struttura dell’Unione Europea è stata utilizzata come catalizzatore politico della posizione italiana, né da Roma si è mai privilegiato un approccio globale e inclusivo della dimensione africana del fenomeno. 

        Il Piano Mattei annunciato dal governo Meloni potrebbe colmare il vuoto di visione nazionale e di progettualità ad ampio raggio di cui soffre l’Italia attualmente, consentendo, nei diversi settori, quella messa a sistema dei principali operatori nazionali – come il ministero della Cultura, la Difesa, Confindustria – che finora è mancata. 

        Tuttavia, l’approccio migliore per informare i piani strategici del Paese dovrebbe soprattutto essere di tipo politico mentre finora, per ragioni comprensibili, ha prevalso l’economia. È necessaria, insomma, una visione di insieme che coordini e integri, in un orizzonte più vasto, la parte economica di cui il sistema nazionale di imprese, grandi o piccole, può essere protagonista. Si tratta di uno sforzo che deve anche poggiare su un maggiore sforzo di conoscenza e studio da parte italiana.

        Tra le correzioni necessarie c’è anche la necessità di restringere l’ambito di azione ed eventuale intervento. Ambizioni continentali sono, infatti, eccessive. L’”Africa” è un concetto che non può ridursi artificialmente: si tratta di un ambito territoriale immenso e caratterizzato da decine di situazioni e contesti diversi in cui nemmeno un player di dimensioni maggiori dell’Italia potrebbe muoversi agevolmente. Servono al contrario obiettivi realistici e perseguibili, più centrati su aree specifiche come ad esempio il Sahel, ma non solo.

        Il quadro del Mediterraneo è quello più immediato, anche perché geograficamente contiguo, eppure anche in questo scenario finora sono stati commessi errori di valutazione. L’Italia è in Libano e non in Libia dove attori di diversa provenienza riescono a condizionare le dinamiche locali meglio di quanto non riesca a fare Roma. Nel Mediterraneo orientale, invece, la decennale presenza italiana rischia di rivelarsi puramente simbolica di fronte al deteriorarsi della stabilità regionale testimoniata dall’ultima crisi esplosa a Gaza.

        Il soft power italiano d’altronde è storicamente abbastanza debole, e i nuovi sviluppi ne evidenziano ancora di più i limiti e la mancanza di risorse. Italianità e cultura italiana in Africa non sono promosse a sufficienza, nemmeno nelle aree di presenza tradizionale, dove l’Italia è ormai è scalzata dalla Turchia, con risultati tangibili per Ankara. 

        Una rinnovata azione italiana può funzionare però solo se coordinata a livello europeo e internazionale, anche se a volte nemmeno questa dimensione è sufficiente: si veda il Sahel dove gli interlocutori europei sono quasi fuori gioco. Intanto 50 milioni di persone si stanno muovendo in Africa come rifugiati o migranti, anche se solo 10 milioni sono determinati a raggiungere l’Europa. Eppure nuove crisi – insieme alla congiuntura africana, che vede una demografia ancora esplosiva accanto a una crescita economica insufficiente per assorbire l’enorme domanda di lavoro – possono mutare tali dati, aggravando la situazione per il fianco meridionale del Vecchio Continente. 

        La massa critica di risorse necessarie per affrontare dinamiche simili dev’essere raccolta e costruita con strumenti diplomatici, finanziari e culturali nuovi e plurali, anche allo scopo di armonizzare il “trilemma” tra priorità strategiche nazionali, esigenze degli operatori economici e sviluppo locale. Fenomeni di grande respiro richiedono, del resto, sinergie e coordinazioni di ampio raggio per essere compresi, gestiti e governati.