Vai al contenuto
PIN

Lezioni dal corona virus. Il caso del Giappone. Intervista a Ludovico Ciferri

    • Ricerca
    • Research
    • 13 Marzo 2020
    • Marzo 2020
    • 13 Marzo 2020

    Un mondo molto efficiente è anche un mondo resiliente a eventi catastrofici improvvisi come una pandemia? Probabilmente no e la diffusione del coronavirus ci obbligherà in futuro a riflettere sull’equilibrio fra resilienza ed efficienza, così come su quello fra tecnologie e libertà individuali. Ecco il punto di vista di Ludovico Ciferri, professore all’International University of Japan, che è anche Presidente di Advanet, azienda giapponese specializzata nello sviluppo e produzione di computer miniaturizzati.

    Come affronta il Giappone l’epidemia di coronavirus? 

    Qui in Giappone abbiamo una situazione un po’ particolare. La mia impressione è che le autorità locali, per diversi motivi, abbiano deciso di mantenere un basso profilo sulla diffusione del virus. Uno dei fattori in campo sono sicuramente le Olimpiadi. Sembra ormai evidente che non si potranno celebrare nelle date previste, ma il governo giapponese sta provando fino all’ultimo a creare le condizioni per non annullare l’evento.

    Un altro aspetto è la difficoltà a effettuare tamponi su larga scala. Il Giappone è un Paese che vanta picchi di tecnologia in diversi campi medici, ma in questo caso ci sono su scala nazionale pochi macchinari che permettono di dare risposte rapide ai test sul coronavirus. L’ho sperimentato da vicino con la vicenda di alcuni colleghi di ritorno dalla Cina, un mese e mezzo fa. A fine gennaio in tutta la prefettura di Okayama non erano disponibili tamponi: le autorità sanitarie ci hanno segnalato che era possibile realizzare il test a Tokyo, a 3 ore e mezzo di distanza con un treno ad alta velocità. Insomma, il Giappone oggi ha misure molto blande, un numero di contagiati basso, pochi morti. E le statistiche indicano una progressione dei casi ancora lenta.

    Come viene spiegata questa situazione?

    Al momento si tratta di un grande interrogativo. Si formulano varie ipotesi: dallo stile di vita che implica minori contatti fisici fra le persone, alla tradizionale diffusione di mascherine fra la popolazione e alla prassi di lavarsi le mani quasi in continuazione, passando per una spiccata preparazione medica sulle malattie respiratorie, sviluppata in un Paese con alti tassi di patologie correlate al fumo. C’è anche chi segnala la diffusione in Giappone di un’influenza particolare nell’autunno dello scorso anno che potrebbe aver stimolato la produzione di anticorpi che per quanto aspecifici potrebbero aver contribuito a rendere i giapponesi meno vulnerabili al virus. Dobbiamo anche segnalare però che nel frattempo le imprese e i cittadini stanno adottando comportamenti molto più stringenti di quelli imposti dal Governo. Molte aziende puntano sul telelavoro e negli uffici, così come nei trasporti, le persone presenti sono un terzo rispetto al normale.

    Quale ruolo ha avuto la tecnologia nel prevenire e contenere la diffusione del virus?

    In Giappone, come abbiamo detto, le misure sono per ora blande (a parte la chiusura di tutte le scuole per un mese) e non sono state utilizzate tecnologie particolari per prevenire o contenere la diffusione del coronavirus. Diverso è il caso della Corea del Sud dove pure ci sono stati moltissimi casi e la tecnologia è stata determinante in diversi contesti, anche a spese della privacy. Innanzitutto, nella diagnosi con un sistema di controllo massivo e una strategia drive-through in cui pazienti appunto venivano diagnosticati senza scendere dall’auto, sul modello dei fast-food americani.

    Un altro aspetto è stata la ricostruzione dei movimenti: non si è tenuto conto delle libertà personali ricostruendo, su un sito aperto al pubblico, gli spostamenti tracciabili (cellulari, carte di credito) dei primi pazienti. Questo ha reso accessibile l’informazione a tutti e sensibilizzato le persone entrate in contatto con i contagiati. Si tratta di un’applicazione concreta dell’uso dei big data che è stata determinante. Ad esempio a Singapore si sono usati strumenti tecnologici, in questo caso anche per informare capillarmente attraverso i  dispositivi mobili tutti i cittadini dell’avanzamento dell’epidemia.

    In ogni caso in questi Paesi, a cui va aggiunta sicuramente la Cina, l’utilizzo di tecnologie anche a scapito della privacy non è tema di grande dibattito. E il coronavirus è stata una prima opportunità per dimostrare il contributo che questi strumenti offrono al benessere pubblico. Se in Europa le libertà individuali sono sacre e nel mondo anglosassone sono un bene “negoziabile”, in Asia non hanno particolare valore se paragonate a un bene superiore che è quello della comunità. Per questo non c’è stata particolare esitazione nello scegliere fra privacy dei cittadini e salute pubblica. 

    Perché senza resilienza non basta essere efficienti?

    Accanto a un ragionamento sulla produttività ce ne deve essere un altro sull’equilibrio fra efficienza e resilienza. Si tratta di due concetti opposti: la resilienza è fatta di ridondanze che nel business nessuno vuole. Il Giappone ha sviluppato e diffuso nel mondo un sistema just-in-time efficientissimo, ma che va in difficoltà al primo imprevisto. Solo per fare un esempio: se si riducono al minimo le scorte di magazzino, alla prima calamità non si ha la flessibilità per andare avanti e si deve fermare tutta l’attività.

    Preparare un’azienda al telelavoro richiede prima di tutto l’adozione di sistemi costosi, su cui in Giappone – come credo pure in Italia – non si è investito molto. Non è però solo un problema di infrastruttura. È anche una predisposizione culturale al rapporto interpersonale, che è uno dei punti di forza dell’Italia e delle sue aziende. Anche in Giappone, pur con condizioni tecniche e culturali molto diverse, il rapporto interpersonale negli affari viene considerato insostituibile, soprattutto nel costruire fiducia. Lo spostamento verso il telelavoro comporta, quindi, cambiamenti e nuove sfide per il futuro. Chi gestisce un’azienda si interrogherà necessariamente sulla necessità di avere uffici grandi e tante persone in funzioni e compiti che magari non sono poi così essenziali per l’attività.

    La situazione degli ultimi anni sembra insegnarci che in un mondo in cui i cambiamenti climatici stanno diventando sempre più estremi, e le epidemie aumentano di frequenza e ed estensione, abbiamo bisogno di mantenere un po’ più resilienza, abbandonando la ricerca estenuante dell’efficienza a cui ci siamo abituati.

    (Intervista realizzata il 13 marzo 2020)

     

     

    Ludovico Ciferri è presidente di Advanet, azienda giapponese specializzata nello sviluppo e produzione di computer miniaturizzati ad elevate prestazioni. Insegna inoltre Mobile Business Strategy e Private Equity & Venture Capital alla Graduate School of Management dell’International University of Japan