Industria italiana tra innovazione e giovani talenti
Intervista a Silvio Angori
Le storie di successo dell’industria italiana non temono gli investimenti esteri. Anzi, c’è chi come Pininfarina ha trovato nel gruppo indiano Mahindra un investitore che lascia grande autonomia e sostiene l’azienda nel raggiungere nuovi traguardi: è il caso della “supercar elettrica da 2,5 milioni di dollari” che il marchio italiano punta a realizzare dopo aver fatto la storia dell’automobilismo, come racconta il Wall Street Journal (16 aprile – Storied Ferrari Designer Wants to Build a $2.5 Million Electric Car*). L’amministratore delegato di Pininfarina, Silvio Angori, ne parla con il sito di Aspen.
Quale valore aggiunto portano le aziende straniere sul mercato italiano?
Nel nostro mondo i capitali non hanno più passaporto. E del resto il fenomeno non è solo italiano: basta guardare a Kuka, leader tedesco dei robot che è diventato cinese. Certo, in Italia molte aziende si trovano in una situazione di debolezza. Per distinguere gli investimenti virtuosi da quelli che puntano solo ad acquisire un marchio e portare la produzione all’estero è necessario mettere le aziende nella condizione di scegliere. La nostra esperienza con Mahindra è assolutamente positiva e finalizzata allo sviluppo industriale. Siamo liberi di agire con un consiglio di amministrazione composto in maggioranza da indipendenti. E questo perché ci sono state riconosciute competenze distintive a livello globale.
L’Italia è un paese competitivo per produrre e fare ricerca in settori ad alto contenuto di innovazione?
Ciò che rende l’Italia competitiva è l’insieme di giovani talenti formati in discipline fra di loro complementari. Con queste risorse si può scommettere sulla buona riuscita dei progetti. Non sempre però l’Italia riesce a trattenere questi talenti che, invece, all’estero ottengono posizioni di responsabilità in pochissimo tempo. Questo avviene perché per molte aziende è più facile attrarre talenti italiani all’estero che offrire loro lavoro in Italia. Siamo, insomma, un Paese con grandi eccellenze, ma che non riesce spesso a incentivare l’insediamento dei centri di sviluppo di società estere.
Quali sono gli ostacoli?
In estrema sintesi potremmo dire che la burocrazia uccide l’iniziativa privata. In maniera più articolata credo che siano quattro i fattori capaci di determinare l’attrattività di un Paese. Il primo è quello della disponibilità dei talenti e della qualità delle scuole, e in questo ambito l’Italia è ben posizionata. Il secondo, molto più critico, è quello dei costi improduttivi: e cioè la burocrazia e tutti gli altri adempimenti necessari per iniziare un’attività. Un altro punto su cui l’Italia deve lavorare è la certezza del diritto, così come sul quarto e ultimo aspetto che è quello delle infrastrutture. Parliamo soprattutto di infrastrutture digitali, visto che viviamo in un mondo in cui i confini non sono più geografici, ma legati alla possibilità di accedere alle informazioni. Eppure, anche quelle fisiche non sono secondarie. Noi realizziamo il 90% del fatturato all’estero, ma, per esempio, per andare in Cina da Torino dobbiamo fare due scali, perdendo tempo e denaro.
Come giudica le opportunità offerte alla manifattura italiana dall’Industria 4.0?
Per fortuna l’Italia, seppure con un certo ritardo, ha abbracciato questo progetto. La rivoluzione è partita, infatti, una decina di anni fa negli Stati Uniti e, poi, in Germania. Ma forse il nostro vantaggio è stato quello di poter imparare dagli errori altrui. Siamo il secondo Paese manifatturiero in Europa e siamo ben posizionati. Come abbiamo appena detto, però, dobbiamo essere in condizione di offrire alle aziende – italiane e internazionali – un quadro di riferimento stabile per fare investimenti e infrastrutture adeguate.
Occupazione giovanile, un grande problema italiano. La manifattura può aiutare?
Penso che l’industria tornerà ad assumere.Tuttavia le aziende avranno bisogno di profili professionali nuovi o che ancora non esistono. La chiave, per i giovani, è imparare a imparare: nella vita sarà richiesto loro di cambiare modo di pensare e di agire sul lavoro ogni due o tre anni. Nella fase iniziale della formazione è essenziale la flessibilità. Credo anche che quegli aspetti della formazione che potrebbero sembrare anacronistici – come il greco o il latino – possono valorizzare nel tempo le competenze di base dei ragazzi. La specializzazione può arrivare dopo: l’importante è essere flessibili e saper cambiare.