Tornare a produrre in Italia. E farlo sapere
Intervista a Matteo Marini
Le cronache dall’Italia dei quotidiani stranieri danno grande risalto alle tre F del made in Italy (food, fashion and furniture). Eppure il Paese non solo è la seconda manifattura d’Europa, ma può vantare anche un posizionamento competitivo molto migliore rispetto alla percezione comune (in Italia e all’estero). Un rilancio industriale è possibile – spiega Matteo Marini, presidente di ABB – e passa per il reshoring delle produzioni, grazie ai grandi cambiamenti tecnologici di Industria 4.0. Il tutto però – aggiunge Marini – va accompagnato da una comunicazione efficace, che rimetta al centro della scena la capacità manifatturiera italiana.
È difficile comunicare l’Italia come Paese competitivo a livello tecnologico?
A volte sì. Questo avviene proprio perché l’Italia ha concentrato la propria comunicazione internazionale su food, fashion and furniture, non valorizzando abbastanza il fatto che siamo la seconda potenza in Europa nell’industria meccanica e delle costruzioni. Eppure se, riclassificate secondo dati oggettivi, le posizioni competitive della manifattura italiana sono molto più forti di quella che è la percezione comune.
Un pilastro di questa competitività è la capacità – ben presente in Italia – di mescolare tante tecnologie e tante competenze diverse. Lavorando in una multinazionale, lo tocco con mano quasi ogni giorno: tanti Paesi vicini hanno aree di eccellenza, ma manca loro questa duttilità, che poi è la capacità di capire “cosa utilizzare quando” in un processo industriale. Sapere fino a che punto spingere la profondità tecnologica in un’applicazione industriale è ciò che permette di avere un settore medium tech ben posizionato. Da questo punto di vista credo che il primato italiano sia assoluto.
Come spiegare questo primato?
Fra i motivi principali vi è la preparazione scolastica che, almeno a livello superiore, è migliore rispetto alla media europea. La scelta, apparentemente retrò dei nostri licei, di dare una formazione di base solida, è una carta vincente: chi si concentra esclusivamente su una tecnologia perde il punto focale, e cioè il business model in cui quella tecnologia viene utilizzata. Gli strumenti tecnologici, infatti, sono assolutamente secondari, perché la tecnologia cambia, mentre chi ha capito come funziona il business resta.
In questo i ragazzi italiani sono meglio posizionati. Manca loro però la “possibilità di fallire”. In Italia il fallimento è un peccato capitale, una condanna profondamente sbagliata perché riduce la propensione al rischio. La possibilità di sbagliare, infatti, è un elemento chiave anche nei business di successo. E, proprio per questo, l’industria 4.0 può rappresentare una svolta per il sistema italiano: attraverso le grandi capacità di analisi e di applicazione della realtà aumentata è possibile, per i singoli e per le aziende, avviare un processo di miglioramento in cui si può sbagliare molto, ma a basso costo.
Italia, ancora terra di industrie?
L’Italia, secondo me, è un Paese a metà del guado. Dalla crisi del 2008/2009 ha subito un colpo tremendo: se noi guardiamo i dati del 2011, vediamo che l’industria ha recuperato in gran parte il fatturato, ma non la produzione. Di fatto, a parità di fatturato, la produzione si è ridotta di circa il 20%. Questa parte è stata essenzialmente esportata in Paesi dove la manodopera è a più basso costo. L’abilità degli imprenditori italiani è stata quella di trovare un modo per ritornare al fatturato pre-crisi, pur con scelte che hanno fatto leva sul costo della manodopera. Siamo a metà del guado perché c’è la possibilità – per nulla scontata – di riportare in Italia una serie di lavorazioni.
Questo è reso possibile dal fatto che si possono automatizzare e robotizzare alcuni processi. Il differenziale, così, non è più il costo della manodopera – che personalmente trovo sia sempre una leva di breve durata – ma il costo del capitale. E in Italia, con le misure approvate negli ultimi anni (pensiamo al rifinanziamento della legge Sabatini o alle misure legate agli ammortamenti approvate nel quadro del Piano nazionale Industria 4.0), si aprono buone opportunità da questo punto di vista. Eppure ci vorrebbe anche un ulteriore elemento di comunicazione e di supporto a livello strategico: la volontà, da parte del Governo italiano, di fare quello che ha fatto l’Amministrazione americana, ossia rilanciare senza tanti falsi pudori una campagna pesante di reshoring.
Come riportare le produzioni in Italia?
Diversamente dalla Germania, che ha fatto un discorso di filiera molto spinto, e dagli Stati Uniti che hanno fatto un discorso di politica industriale e di finanziamenti privati, in Italia si è scelta la leva fiscale. Ritengo che le misure rispondano bene a quello che è il tessuto produttivo italiano: non abbiamo, infatti, grandissime aziende che possono fare filiera come quelle tedesche, ma possiamo contare su una serie di aziende medio-piccole; queste oggi, attraverso la leva fiscale e gli incentivi, hanno le stesse possibilità di agire, in ambito innovativo, delle grandi industrie.
Credo che questo sistema possa funzionare. Certo, ci vorrebbe più comunicazione e forse una strategia governativa più esplicita. Quando sento ancora che l’Italia è solo food and fashion, come esponente del mondo industriale, mi viene la nostalgia. Penso agli anni Cinquanta e Sessanta quando una buona parte degli impianti industriali presenti nei Paesi mediterranei avevano tecnologia, capacità, costruzione italiane. Oggi siamo ben lontani da quei livelli. Certo, abbiamo delle solide basi per iniziare il recupero.