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Con apparecchiature da 007 miglioriamo le prospettive del trapianto a cuore fermo. Intervista a Paolo Muiesan

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    • 27 Giugno 2013
    • Giugno 2013
    • 27 Giugno 2013

    Fino a qualche anno fa si trattava di un’opzione molto difficile; oggi i trapianti da donatore “a cuore fermo” possono offrire una reale alternativa alla carenza di organi. Il primo a realizzare a Londra un trapianto di fegato di questo tipo è stato Paolo Muiesan, chirurgo al Queen Elizabeth Hospital e membro della comunità dei “Talenti italiani all’estero”. E ora che il numero di donatori utili sta calando – spiega Muiesan al sito di Aspen – la ricerca clinica punta su nuove apparecchiature per migliorare l’utilizzo degli organi anche in condizioni non ottimali.

    Lei è stato il primo chirurgo a introdurre in Inghilterra il trapianto di fegato da donatore “a cuore fermo”. Che risultati sta dando questo tipo di intervento e quali sono i prossimi sviluppi della ricerca clinica?
    Siamo partiti con un’iniziativa considerata d’avanguardia e pian piano abbiamo realizzato un buon numero di casi, ottenendo ottimi risultati. Tutto è iniziato nel 2002 quando mi trovavo al King’s College Hospital di Londra: abbiamo pensato che fosse possibile realizzare anche per il fegato un trapianto da donatore “a cuore fermo”, e cioè non da donatore in morte celebrale, ma da donatore deceduto in seguito ad arresto circolatorio. Si trattava di una procedura complessa, con precedenti limitati ai reni e qualche esperienza già presente negli Stati Uniti.
    Abbiamo iniziato dal nulla, seguendo il team che già si occupava di questo tipo di trapianto sui reni, e adesso lavoriamo a un filone di ricerca che sta puntando su macchine capaci di ricondizionare, fare una valutazione e possibilmente anche migliorare organi marginali. Si tratta in particolare dell’ECMO (Extra-Corporeal Machine Oxigenator), un’apparecchiatura pensata per tenere in vita persone che hanno pessima funzionalità respiratoria. Noi la usiamo in modo completamente diverso, impiegandola come un bypass per restaurare la circolazione addominale di sangue ossigenato dopo la morte da arresto circolatorio. Il fatto che la testa non sia irrorata evita di sollevare problemi etici.
    Un’altra possibilità che stiamo esplorando adesso a Birmingham è l’utilizzo di una macchina molto complessa, sviluppata ad Oxford: si tratta di un’apparecchiatura che può sembrare uscita da un film di 007, ma è capace di mantenere la circolazione ossigenata nel fegato fuori dal corpo. Ci apprestiamo, insieme al King’s College Hospital, a far partire i primi 20 casi pilota al mondo.

    I trapianti di questo tipo possono risolvere il problema della scarsità di donatori?
    Dobbiamo prima di tutto considerare che i donatori utili sono diminuiti negli anni a causa di diversi  fattori che hanno ridotto la mortalità: dalla diffusione dei farmaci antipertensivi, al maggiore utilizzo delle cinture di sicurezza. Ci siamo trovati così con donatori sempre meno ideali, i cui organi vanno messi in condizione di funzionare meglio.
    Quando abbiamo iniziato ad effettuare trapianti da donatore “a cuore fermo”, al King’s eravamo i primi in Inghilterra e realizzavamo circa 5 interventi di questo tipo all’anno. Quando poi mi sono trasferito al Queen Elizabeth – insieme al King’s fra i principali centri per volume di trapianti in Europa – l’obiettivo era di coprire con questi interventi il 10% dei casi: siamo arrivati al 30%. Abbiamo superato l’obiettivo, ma non necessariamente lo consideriamo un fatto positivo. Il rischio è che ci sia un potenziale fenomeno di sostituzione, e che quindi l’aumento di organi disponibili da donatore “a cuore fermo” abbia portato a ricercare con meno convinzione la possibilità di donazioni in morte celebrale. Quest’ultimo processo, pur dando maggiori chance di successo, implica infatti tempi più lunghi.
    I rischi di tale sostituzione emergono da un lavoro che stiamo pubblicando: dal fegato espiantato “a cuore fermo” derivano risultati leggermente peggiori. Inoltre bisogna considerare che la donazione con morte celebrale permette l’espianto di quattro o cinque organi per donatore, mentre quella da donatore “a cuore fermo”, nonostante i tantissimi progressi, rimane su una media di 2,5 organi: cioè i reni in quasi tutti i casi, e a volte anche il fegato ed i polmoni. È per questo che la donazione “a cuore fermo” deve portare a un’aggiunta di donatori e non a una sostituzione.

    Esiste in Italia la possibilità di fare interventi di questo tipo? Come far emergere le eccellenze nella ricerca clinica e nella medicina?
    Il centro più attivo su questo tipo di interventi è Pavia, dove si effettuano trapianti di reni. Sono stati fra i primi ad utilizzare l’ECMO e io mi trovo ogni tanto a collaborare con loro: adesso ad esempio abbiamo fatto una proposta di ricerca insieme, per un progetto in cui era contemplato un partner italiano all’estero.
    In Italia credo però che sia necessario razionalizzare le risorse e i centri, perché la ricerca clinica di un certo livello si può fare solo in strutture molto grandi. Questo permetterebbe di valorizzare quei centri che funzionano benissimo e sono già noti in campo internazionale. Un altro elemento importantissimo riguarda il cambio di mentalità: la cultura della collaborazione-competizione che esiste in Inghilterra e negli Stati Uniti – in cui si è supportati fino a un livello e poi si entra in competizione con gli altri – è vincente. I centri fanno di tutto per attrarre i migliori, i fuoriclasse. Bisogna creare anche in Italia l’interesse ad attrarre le persone più capaci, scardinando la paura della competizione e rendendo i giovani più indipendenti.
    Credo che un cambio culturale di questo tipo in Italia possa essere portato avanti anche attraendo persone che hanno vissuto a lungo all’estero. Ma prima di tutto bisogna avere il coraggio di realizzare un sistematico progetto di riforma. Sono convinto che questo coraggio arriverà: la diminuzione dei fondi disponibili porterà infatti alla necessità di far funzionare meglio le cose. E questo contribuirà a una piccola rivoluzione anche nel nostro campo.