Governance e architettura finanziaria: sono i due pilastri sui quali intervenire per dar un nuovo assetto al sistema dell’università italiana. Che una riforma sia oggi necessaria è opinione pressoché prevalente. Come declinare queste istanze riformiste ed elaborare soluzioni normative e procedurali efficaci è, invece, motivo di confronto, sia all’interno del mondo accademico, sia, più in generale, nell’ambito del dibattito pubblico italiano, alla vigilia della presentazione del disegno di legge di riordino dell’università da parte del governo in carica.
Il raffronto con le tendenze rilevabili nel resto d’Europa e del mondo può fornire, anche in questa area di policy, interessanti spunti di analisi. Gli studi comparati infatti consentono, in primo luogo, di individuare un filo conduttore tra i processi di cambiamento in atto nei maggiori Paesi ad economia avanzata. Ovunque pare ormai confermata la trasformazione da un modello d’università d’élite a un sistema di massa, che ha, sulla carta, il compito di veicolare, e possibilmente valorizzare, una domanda sempre più allargata di alta formazione e specializzazione.
Sul piano gestionale, questa trasformazione si è tradotta, altrove, nel superamento dei moduli organizzativi centralizzati del passato e nella conseguente enfatizzazione del ruolo dell’ autonomia dei singoli atenei. Autonomia che, a sua volta, ha indotto la messa a punto di modelli di governance più flessibili, incentrati su obiettivi di responsabilità ed efficienza. La trasposizione normativa di queste nuove forme di governo delle università è avvenuta, nella gran parte dei Paesi europei, dopo una transizione più o meno accidentata, che ha prevalentemente messo in luce l’incompatibilità intrinseca tra l’autonomia e la governance di tipo tradizionale.
In Italia, nonostante l’autonomia sia stata codificata nel 1989, la transizione è ancora in corso. Difficile, in questi anni, giungere a una riorganizzazione delle università senza sconfinare nel terreno dello scontro ideologico. Difficile superare la resistenza al cambiamento di una parte del sistema ancora troppo incline all’autoreferenzialità e alla conservazione di interessi altri rispetto a quello generale della collettività.
Quali che siano le origini storiche e politiche di queste difficoltà, non v’è dubbio che, senza un incisivo intervento sui meccanismi di gestione degli atenei (funzione del Cda e del Senato accademico, ruolo di dirigenti e docenti, selezione del personale, distinzione tra didattica e ricerca), a risultare compromessi sarebbero non solo la missione classica dell’università, con la promozione di un nuovo diritto allo studio, ma anche quegli obiettivi di responsabilità, efficacia e competitività considerati irrinunciabili in una moderna società della conoscenza.
Anche da questo punto di vista il confronto con quanto accade nel resto del mondo è esemplare: l’università italiana – fatta eccezione, non a caso, per le eccellenze rappresentate dalle scuole di specializzazione superiore – non è competitiva. Non lo sono, in media, gli studenti che vi si laureano, come raccontano le rilevazioni dell’Ocse. Non lo sono gli atenei pubblici, distribuiti in una pletora eccessiva di sedi distaccati e università di provincia, per la maggior parte poco efficaci nell’internazionalizzarsi e nell’attirare, dall’estero, capitale umano di qualità.
Manca, o è insufficiente – nonostante le positive aperture fatte, in questa e nella precedente legislatura, sull’Agenzia nazionale per la Valutazione – una cultura manageriale di gestione delle università, basata sul merito e sulla rendicontabilità dei risultati. Allo stesso modo, fatica ad affermarsi, specie per ciò che attiene alla didattica, una concezione dell’università intesa come servizio, soggetta, in quanto tale, a periodiche verifiche di soddisfazione dei consumatori. Consumatori costituiti, in questo caso, dagli studenti e dalle loro famiglie, che si fanno carico delle tasse universitarie, ma più in generale dall’intera comunità, che alla formazione demanda ancora il ruolo di principale strumento di promozione sociale.
Come incentivare il merito, a partire da una valutazione fondata su indicatori oggettivamente rilevabili – sia per la ricerca, sia, significativamente, per la didattica – resta un problema aperto. Un problema che evidentemente riguarda, anzitutto, la selezione del personale. Il confronto oggi in corso, all’interno del mondo accademico, sul modello di “idoneità nazionale” per il reclutamento autonomo del corpo docente lascia intuire la difficoltà incontrate nell’individuare soluzioni condivise, sia pure solo transitorie.
Ma il problema investe, più genericamente, l’intero capitolo del finanziamento pubblico degli atenei. Anche qui la transizione è in atto da anni – per lo meno dall’introduzione dell’autonomia finanziaria dell’università nel 1993. L’analisi della struttura e dell’evoluzione della spesa negli ultimi quindici anni conferma che l’architettura macrofinanziaria del sistema universitario italiano è tutt’altro che stabile. Da un lato, infatti, i bilanci dei singoli atenei fanno registrare, in media, una tendenza allo squilibrio, tanto da far preconizzare il rischio, nel giro di qualche anno, di un possibile stato di dissesto finanziario per una quota consistente delle università italiane. Dall’altro, l’intervento pubblico, delegato all’amministrazione centrale attraverso il canale costituito dal Fondo di Finanziamento ordinario, risulta sempre più schiacciato su voci di bilancio legate alla spesa storica (con particolare riferimento ai costi del personale a copertura della massa stipendiale dei docenti) e vincolato dall’impossibilità di far leva sullo strumento fiscale.
Un riequilibrio nell’allocazione delle risorse e un ridisegno degli incentivi e delle norme che li disciplinano consentirebbe di imboccare un percorso di razionalizzare e programmazione indispensabile per risolvere l’equazione tra responsabilità dell’uso delle risorse pubbliche e la promozione del diritto allo studio.