Stretta fra il ritiro strategico degli Stati Uniti, la sovraccapacità produttiva cinese e la propria debolezza, l’Europa affronta il 2026 davanti a un bivio: un anno di rischi, ma anche di opportunità per riprendere in mano il proprio destino.
Il vecchio continente si deve confrontare con attori globali che, pur mostrando alcune difficoltà, stanno reagendo all’attuale quadro di crescente incertezza geoeconomica. Da un lato la Cina, che porta avanti un’aggressiva strategia orientata alle esportazioni per compensare le proprie difficoltà interne. A Pechino emerge una frattura tra le cifre ufficiali, che annunciano una crescita del PIL del 5% nel 2025, e stime più prudenti che la collocano intorno al 2,7%. Questo rallentamento, anziché ridurre la pressione cinese sul commercio mondiale, tende ad accentuarla. La sovraccapacità produttiva, ostacolata nel suo sbocco verso gli Stati Uniti dalla politica commerciale dell’amministrazione Trump, ha trovato infatti nuovi approdi. Con le economie manifatturiere europee, Italia in testa, ancora più esposte al rischio di deindustrializzazione.





La principale difficoltà per l’Europa si manifesta tuttavia sul versante atlantico. Washington è determinata a sovvertire un ordine mondiale che l’ha sempre vista come garante della sicurezza del vecchio continente. La richiesta americana agli europei è esplicita: smettere di essere un peso per gli Stati Uniti, concentrati nella rivalità strategica con la Cina, e diventare autonomi, contribuendo a stabilizzare l’Eurasia.
Tale richiesta arriva in un momento di grandissima incertezza che però non sembra aver avuto effetti particolarmente gravi sull’economia americana. Certo, le promesse di una rapida reindustrializzazione restano lontane dal realizzarsi, ma i dazi dell’amministrazione Trump non hanno innescato forti spinte inflazionistiche: le prospettive per il 2026 si dividono fra chi vede una crescita sotto il 2%, che per un’America abituata a correre è sinonimo di secular stagnation, e chi tiene in conto la tenuta del mercato del lavoro oltre che dei consumi interni per prevedere un progresso verso il 3% e oltre; a sostenere questa ipotesi ci sono sgravi fiscali che nei prossimi 10 anni raggiungeranno i mille miliardi di dollari.
L’Europa invece deve misurarsi con la propria mancanza di visione strategica. L’UE ha le risorse e le opportunità per stimolare la propria economia e rilanciare quella competitività che ha perso negli ultimi 30 anni. È chiamata però a un salto di qualità che affronti le tante debolezze sistemiche: dal costo dell’energia proibitivo, all’eccesso regolatorio, fino alla difficoltà di una politica incapace di creare efficienza, autonomia e grandi campioni nazionali in tanti settori critici, a partire dalla tecnologia.
Molti sono i rischi, ma l’attuale situazione di grande incertezza può dare la spinta per trasformarli in opportunità. Serve un’integrazione europea più profonda in diversi campi – dall’energia, alla finanza, dove mancano economie di scala, efficienza e capacità di attrarre capitali che contraddistinguono gli Stati Uniti – e un nuovo pragmatismo, capace di decisioni rapide in settori cruciali come la difesa e l’industria.
La proposta degli eurobond emerge come una soluzione necessaria per affrontare i nodi irrisolti, rilanciando la competitività; e con essa anche il ruolo dell’UE nel nuovo scenario globale. La prospettiva di diventare un terzo polo autonomo e distante da Cina e Stati Uniti è impercorribile e irrealistica. Resta da scegliere se proseguire nel cammino dell’inazione e dell’indignazione verso il cambiamento di paradigma promosso dagli Stati Uniti, ponendo le basi per un’accelerazione del declino europeo. L’alternativa per l’Europa è reagire alle tante crisi in atto e mettere le basi, già nel 2026, per riprendere in mano il proprio destino.


