L’attuale scenario globale impone una riflessione strategica sul ruolo dell’Italia, che deve affrontare sfide sistemiche legate a demografia, competitività, innovazione e coesione sociale. Al centro di queste dinamiche si colloca il territorio, inteso non solo come spazio fisico, ma come sistema relazionale e identitario. La resilienza e la capacità progettuale dell’Italia risiedono nella valorizzazione delle sue specificità: piccole e medie imprese radicate, cultura imprenditoriale intergenerazionale, capitale umano, patrimonio culturale e un diffuso senso di appartenenza.
L’economia italiana si fonda su un tessuto imprenditoriale frammentato ma capillare. Le PMI rappresentano una forza distintiva, ma il ridotto numero di addetti – con una media di 9 per azienda nel settore food, ad esempio – limita la capacità di innovazione e di scalabilità. Serve un cambio di paradigma sulla dimensione d’impresa: l’aggregazione, il networking, i distretti evoluti e le reti di imprese devono diventare elementi strategici, superando le tradizionali resistenze culturali. In parallelo, occorre favorire la nascita di aziende più strutturate capaci di affrontare la concorrenza globale, anche attraverso incentivi selettivi e modelli di collaborazione pubblico-privata.
In un mondo post-globalizzato, caratterizzato dalle politiche industriali aggressive statunitensi e cinesi, l’Europa e l’Italia devono costruire una propria via alla sovranità tecnologica e produttiva. Il gap innovativo è evidente: nel 2023 l’Italia ha depositato solo 24.000 brevetti rispetto ai 133.000 della Germania e all’1,65 milioni della Cina. Eppure, settori come il farmaceutico e l’agroalimentare dimostrano la presenza di eccellenze. È necessario investire in R&S, infrastrutture, internazionalizzazione e formazione, ma anche semplificare la burocrazia, rafforzare le filiere locali e valorizzare le competenze distribuite.
L’emergenza demografica è una delle principali criticità del Paese. L’Italia ha perso oltre 500.000 giovani in dieci anni, con un danno economico stimato in 134 miliardi di euro. Il saldo migratorio studentesco è migliorato, ma il tasso di trattenimento degli studenti stranieri resta basso (15% contro il 60% della Germania). Il capitale umano qualificato cerca prospettive: mobilità, esperienze internazionali e contesti organizzativi che lo valorizzino. È illusorio pensare di trattenere i giovani senza offrire opportunità chiare, trasparenti e inclusive.
Le aspettative giovanili sono mutate: meno fedeltà aziendale, più ricerca di senso, impatto, benessere e flessibilità. La mobilità abitativa, la qualità dei servizi, il welfare territoriale e il protagonismo nelle decisioni pubbliche diventano fattori di attrazione più delle sole retribuzioni. Occorre una visione integrata che metta i giovani al centro delle politiche urbane, lavorative e culturali: un modello può essere quello di Parma, che ha introdotto la valutazione di impatto generazionale sulle delibere comunali.
Lo sviluppo sostenibile non può essere solo economico, ma deve includere dimensioni sociali, ambientali e culturali. Il rapporto tra impresa e territorio può così diventare virtuoso: non filantropia, ma “altruismo interessato”. In questo senso, le imprese benefit e le academy aziendali sono esempi di modelli innovativi che integrano formazione, valori condivisi e impatto sociale, anche attraverso percorsi aperti a fornitori e comunità locali. La coesione si costruisce su reti, dialogo tra imprese e istituzioni, investimenti congiunti e visione sistemica.
La cultura, oltre che dal patrimonio ereditato, è costituita dalla capacità continua di fare, di rigenerare, di creare valore. La valorizzazione culturale può diventare motore di sviluppo economico e coesione sociale, come nel caso del turismo enogastronomico emiliano. Il legame tra cultura e impresa può offrire nuove narrazioni identitarie capaci di attrarre investimenti e talenti. L’Italia ha la possibilità di trasformare le proprie specificità in leva competitiva, ma serve maggiore leggibilità e semplificazione per gli attori esterni.
L’innovazione non è solo tecnologica ma culturale e organizzativa. La pervasività dell’intelligenza artificiale pone sfide profonde su governance, competenze, servizi pubblici e assetti produttivi. Occorre però agire subito, in modo dinamico, anche extra-curriculare, per anticipare i cambiamenti. La formazione continua – o adattiva – deve diventare una priorità di sistema.
Il Paese è oggi duale: il PIL si concentra su un asse ristretto (Milano-Bologna), mentre vaste aree restano in ombra e addirittura, in alcune aree marginali del Nord, emergono dinamiche tipiche del Sud: bassa attrattività occupazionale, spopolamento giovanile, fragilità delle infrastrutture. Serve un progetto nazionale che valorizzi la diversità dei territori e che sia capace di integrare le economie locali in una visione condivisa. Le università, in particolare, devono uscire dalle torri d’avorio e operare come hub attrattivi, internazionali, legati alle imprese e alle reti sociali. Le aziende, dal canto loro, sono chiamate a innovare non solo i prodotti ma anche i modelli organizzativi, aprendosi al dialogo intergenerazionale e alle aspettative delle nuove generazioni.
La transizione demografica è inevitabile, ma può essere gestita se si costruisce un Paese più attrattivo, più equo, più comprensibile. L’Italia non deve puntare a essere solo “il Paese più bello del mondo” ma a diventare anche il più desiderabile dove vivere, lavorare e investire. Questa sfida è collettiva, sistemica e soprattutto urgente.