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“Sorpresa Africa, la nuova terra promessa per l’e-commerce” – Intervista a Massimiliano Spalazzi

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    • 4 Marzo 2019
    • Marzo 2019
    • 4 Marzo 2019

    In Africa, un continente giovane e aperto alle innovazioni, dove nessuno – nemmeno i giganti tecnologici globali – si era ancora avventurato fino a qualche anno fa, una start-up internet come Jumia è passata in pochi anni da 10 a 3.000 dipendenti, diventando leader dell’e-commerce in 14  Paesi. La ricetta del successo la spiega Massimiliano Spalazzi, manager che ha guidato lo sviluppo internazionale della piattaforma e oggi è Executive Vice-President: la capacità di offrire risposte semplici alle esigenze dei consumatori, ad iniziare dal mobile money, un portafoglio collegato al credito telefonico con cui pagare tutto, anche le verdure al mercato.

    Una start-up diventa leader dell’e-commerce  in Africa: E dove erano le grandi aziende del settore? Hanno avuto timore del mercato africano, percependo un rischio di ritorno sull’investimento molto elevato. A causa di questa visione il continente è rimasto per molto tempo fuori dai radar dei grandi player del settore. I nostri investitori, invece, hanno creduto in un mercato giovane e hanno deciso di investire, contraddicendo lo stereotipo che in Africa è difficile creare valore. E Jumia ha generato da subito un valore incredibile, perché ha affrontato i problemi concreti della persone. La Nigeria è un Paese dove fare shopping nel weekend può richiedere tre o quattro ore di coda nel traffico. Una piattaforma come la nostra che ha riunito diverse offerte, in un mercato in cui l’offerta era carente e la competizione pressoché inesistente, ci ha fatto crescere molto in fretta con tassi annui fra il 50 e il 70%.

    Come è stata possibile una crescita così rapida?

    Il mercato africano è un mercato molto giovane e in continua crescita demografica. Quando abbiamo iniziato, nel 2012, la Nigeria aveva 165 milioni di abitanti, oggi sono 190. Certo qui meno del 50% della popolazione è connessa, ma i numeri sono comunque enormi e in grado di sostenere tassi di crescita elevati.

    Uno dei nostri primi obiettivi è stato formare lo staff. Gli stessi manager erano chiamati prima a formare e poi a gestire i collaboratori. Abbiamo generato così molte competenze che poi sono diventate cruciali nell’espansione in altri mercati africani. Oggi abbiamo uffici in tutte le 14 nazioni in cui operiamo: siamo partiti in 10 dipendenti, adesso siamo 3.000 in tutto il continente, 100.000 se si considera l’indotto.

    Jumia può diventare un player globale?

    Per il momento puntiamo a rimanere africani. Siamo presenti in 14 Paesi e nel continente ce ne sono più di 50:  c’è abbastanza da fare. In Africa ci sono circa 500 milioni di persone connesse a internet con un’età media di 19 anni. Una popolazione giovane, molto digitalizzata e vogliosa di fare impresa. In tutti i mercati in cui operiamo c’è un grande desiderio di imprenditorialità commerciale. Piattaforme come Jumia hanno successo perché rispondono a questa domanda rendendo tutto più facile attraverso i cellulari. A Lagos, dove c’è il nostro quartier generale, c’è un grande hub per le start-up che sta diventando un crocevia per tutta la scena tecnologica dell’Africa Occidentale. È un mondo in fermento: nell’e-commerce siamo stati i primi e abbiamo formato parecchie persone che sono poi andate ad aprire nuove aziende tecnologiche.

    Ci sono innovazioni del mercato africano non ancora presenti in Europa?

    Certo. Bastiensare a tutta la parte dei pagamenti, in particolare l’utilizzo del credito del cellulare come moneta per scambiare valore. Quando sono arrivato in Nigeria non avevo mai sentito parlare di mobile money: ogni utente ha un portafoglio con cui può fare pagamenti scalando direttamente credito dalla tessera telefonica – questo funziona per il biglietto dell’autobus, ma anche per la verdura al mercato. Tale soluzione permette anche l’erogazione del credito da parte delle compagnie telefoniche che possono valutare l’affidabilità di un cliente dallo storico delle sue transazioni, diventando così delle vere e proprie banche.

    Il mercato e-commerce africano offre opportunità per il made in Italy?

    Le grandi marche italiane si conoscono già e sono molto ambite. È ben percepita l’idea italiana di qualità, specialmente nel cibo, ma ritengo ci sia spazio di crescita nel settore del lusso dove ci sono pochi punti vendita ed il mercato è ancora abbastanza vergine. In ogni caso, quando parlo con imprenditori italiani spiego che l’Africa è un mercato in cui bisogna investire una nazione alla volta e avere una presenza locale. È difficile avere successo qui rimanendo in Italia, anche se ci sia appoggia a un distributore locale. Ciò perché è necessario confrontarsi direttamente con le peculiarità di mercati nazionali che non sono ancora molto trasparenti e regolamentati.

    E l’Italia? In che modo dare maggiore impulso alla creazione di aziende innovative?

    Finiti gli studi ho aperto in Italia una start-up con un amico: il nostro obiettivo era aiutare le persone a trovare locali dove guardare match di sport internazionali nelle principali città italiane. Ci siamo però presto resi conto di non avere le competenze per far crescere e rendere profittevole un’azienda. E così siamo entrati in un incubatore. La presenza di incubatori e investitori è un elemento fondamentale per sostenere le start-up. Tuttavia il problema dell’Europa è la grande frammentazione, normativa e linguistica, in diversi mercati nazionali. Se si superasse questo problema si otterrebbe un mercato sufficientemente grande dove anche l’Italia potrebbe dire la sua. Del resto il successo di Silicon Valley è dovuto anche alla piacevolezza dei passaggi e al clima californiano. Credo che, a livello europeo, l’Italia possa sognare, per la bellezza delle città e la qualità dello stile di vita, di diventare un polo di attrazione per talenti da tutto il mondo.