Un modello da seguire per far crescere le piccole e medie aziende del biomedicale. Singapore ha investito molto sulla ricerca, creando ex novo un campus, Biopolis, in cui si sono insediati 20 istituti di biomedicina e ingegneria. Fra questi SIgN (Singapore Immunology Network) di cui l’immunologa Paola Castagnoli è direttore scientifico. La scommessa sulla biomedicina fatta dalla piccola città-stato asiatica – spiega Castagnoli al sito di Aspen – si può replicare anche in Italia, dove le competenze non mancano. E dove c’è un tessuto vivo di PMI che potrebbero interagire bene con la ricerca di base.
Dal 2007 lei è direttore scientifico del SIgN. Qual è il potenziale della ricerca immunologica a Singapore?
Dobbiamo dire innanzitutto che a SIgN ci occupiamo di immunologia umana, ed in particolare di malattie infettive ed infiammatorie. Il potenziale di applicazione, al di là di Singapore che ha livelli di vita occidentali, è notevole visto che siamo nel Sud Est asiatico, un’area da 650 milioni di persone dove sono presenti molte malattie infettive come malaria, dengue, tubercolosi. Essere qui, inoltre, è importante perché il genotipo asiatico è diverso da quello caucasico e questo permette di capire quanto il genotipo di una popolazione contribuisca allo sviluppo di certe malattie.
Abbiamo anche osservato che una stessa malattia si manifesta in maniera diversa se il genotipo è diverso: tale differenza ha ricadute importanti nello sviluppo dei farmaci che in futuro saranno sempre di più personalizzati. A Singapore studiamo la risposta immunitaria alle malattie infettive ed infiammatorie sia nella popolazione locale asiatica sia in quella caucasica, visto che oltre il 30% degli abitanti del Paese è straniero. E per le aziende farmaceutiche, che per ora hanno studiato l’effetto dei farmaci solo in Occidente, queste ricerche sono molto importanti per entrare nel vastissimo mercato cinese.
Quanto e in che modo Singapore sta investendo sulla ricerca?
L’investimento è sia sulla ricerca che soprattutto sul capitale umano perché Singapore ha solo 47 anni di vita e quindi non ha potuto formare ancora abbastanza scienziati. Per questo cerca di attirarli dall’estero: io sono arrivata qui nel 2007 dall’Università di Milano-Bicocca per creare un centro di ricerca completamente nuovo, SIgN che fa parte di A-STAR l’agenzia governativa per la scienza e la tecnologia, che per inciso dipende dal ministero dell’Industria e del Commercio e non da quello dell’Istruzione o della Sanità. A Biopolis A-STAR ha fondato 20 Istituti di ricerca dove lavorano in tutto circa 3.000 ricercatori, metà dei quali sono stranieri. Questo Paese ha deciso di puntare molto sulla ricerca perché il Governo vuole che uno dei 4 pilastri dell’economia nazionale sia proprio la conoscenza: se dieci anni fa gli investimenti in ricerca e sviluppo erano pari all’1,9% del PIL, oggi raggiungono il 3%.
Quali opportunità offre un progetto come Biopolis ai talenti stranieri?
Solo a SIgN ci sono 27 capi laboratorio provenienti da 15 paesi, di cui 6 italiani, e si parlano 26 lingue diverse. Singapore ha capito che investire in talenti internazionali premia e contribuisce all’innovazione, anche grazie all’integrazione fra diverse discipline: a Biopolis sono presenti infatti 10 istituti di ricerca in campo biomedicale e altrettanti istituti di ingegneria bioinformatica e scienza dei materiali che l’agenzia A-STAR cerca di far interagire al meglio.
Le opportunità, però, non sono solo per chi viene a vivere qui: siamo un vero e proprio ponte con l’Europa e abbiamo diverse partnership con Istituti di ricerca e università italiane ed europee. Inoltre, abbiamo sottoscritto 12 accordi con grandi aziende farmaceutiche, soprattutto europee: la ricerca biomedica, infatti sta diventando sempre più traslazionale, e quindi applicata, come chiaramente traspare dal nuovo programma quadro della Unione Europea, Horizon 2020 nell’area della salute. E l’Asia offre ottime occasioni di collaborazione in questo campo.
Di che cosa ha bisogno l’Italia per replicare questo modello di successo?
Non è difficile capire da dove si possa partire in Italia. In primo luogo ci vorrebbe un quadro normativo che favorisca gli investimenti in ricerca e sviluppo. Una questione specifica del biotech riguarda, poi, la scarsità di business angels e fondi di venture capital disposti ad intervenire anche nelle fasi precoci dello sviluppo del prodotto. Il problema interessa soprattutto la sperimentazione pre-clinica, una vera e propria “valle della morte” dei progetti, dove c’è una grande necessità di trovare dei fondi adeguati. Si tratta infatti della fase, nello sviluppo di un prodotto, con il maggiore rischio e questo rende difficile trovare investitori; spesso, poi, le limitate risorse pubbliche, non vengono usate adeguatamente ed è un vero peccato perché nella ricerca biomedicale l’Italia è eccellente.
Non bisogna dimenticare, infine, che la creazione di poli di ricerca e sviluppo biomedico è fondamentale per dare visibilità alla nostra ricerca, mentre la frammentazione non premia: in questo momento le big pharma stanno chiudendo molti dei loro centri di ricerca perché pensano che i futuri prodotti verranno dal settore biotech,, dagli istituti di ricerca privati o dai centri pubblici come le grandi università. Questa è la vera opportunità ed è quello che la piccola Singapore, grazie a un progetto come Biopolis, sta cercando di costruire, attirando piccole e medie imprese che vogliono essere vicine alla ricerca di base. Credo che questo sia un esempio molto valido anche per l’Italia, non solo perché nel settore della biomedicina abbiamo ottime competenze, ma anche perché questo modello premia la creatività che è ben presente nel tessuto produttivo italiano.
Paola Castagnoli, direttore scientifico di SIgN (Singapore Immunology Network), è stata Professore Ordinario di Immunologia e Patologia Generale presso l’Università di Milano-Bicocca.
Dopo la laurea presso l’Università di Firenze e il PhD in immunologia all’Università di Lovanio, ha svolto la sua attività di ricerca per il Consiglio Nazionale delle Ricerche a Milano, ed è stata postdoctoral fellow alla Stanford University e visiting scientist al MIT di Boston. Membro dell’EMBO e dell’Accademia delle Scienze Leopoldina, ha vinto una Marie Curie Chair dell’Unione Europa presso l’Istituto Pasteur di Parigi e fa parte dello Scientific Advisory Board del Max Plank Institute for Infectiology a Berlino. Ha pubblicato si riviste internazionali oltre 180 lavori che hanno avuto 25000 citazioni.