Vai al contenuto
PIN

Sarà l’Africa la nuova fabbrica del fast-fashion. Intervista a Maurizio Bussi

    • Ricerca
    • Research
    • 19 Luglio 2016
    • Luglio 2016
    • 19 Luglio 2016

    Il ruolo di ‘fabbrica del mondo low-cost’, che un tempo era della Cina, in un futuro molto vicino è destinato a passare all’Africa. Infatti, i settori ad alta intensità di manodopera, come il fast-fashion o l’elettronica di consumo, cercano nuovi Paesi dove produrre. Maurizio  Bussi, Direttore del Decent Work Technical Support Team per il Sudest asiatico e l’Asia orientale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro spiega opportunità e prospettive di questa tendenza al sito di Aspen.

    La Cina, dunque, cambia pelle?
    La Cina punta a riorientare il proprio sistema economico per creare un importante mercato interno con maggiore capacità di consumo. Per questo cerca di superare un modello basato sul lavoro a basso costo. Come spesso accade nel Paese asiatico si tratta un passaggio incrementale. I gruppi attivi sulla parte costiera stanno portando in altri Paesi le produzioni caratterizzate da grandi volumi, scarsa integrazione verticale e ridotto apporto tecnologico. Nel tessile, ad esempio, la domanda è in continua crescita, come dimostra l’espansione costante delle grandi catene di fast-fashion. Siamo di fronte a un settore che cresce ancora del 10% annuo, uno dei pochi che ha mantenuto tassi simili nell’ultimo decennio. Si tratta, insomma, di un comparto ancora molto interessante in termini di crescita economica e occupazionale. Per questo le aziende cinesi delocalizzano le produzioni, ma non cedono il controllo della filiera.

    Dove si stanno spostando le fabbriche?
    Le aziende cinesi che vogliono produrre altrove cercano costi salariali contenuti e infrastrutture adeguate. Fra i Paesi che stanno beneficiando di questa tendenza vi è sicuramente il Vietnam, che può vantare un altro fattore di competitività: l’aver appena rafforzato i legami commerciali con l’Europa e con gli Stati Uniti. Altri Paesi del Sudest asiatico interessati dall’arrivo di nuovi investimenti cinesi nel manifatturiero sono Cambogia e Birmania.

    La delocalizzazione non interessa però solo la regione più vicina alla Cina: il Mozambico, ad esempio, ha potenzialità molto vicine  a quelle del Vietnam a fronte di salari inferiori. Negli ultimi due anni sono stati creati nel Paese africano 150.000 nuovi posti di lavoro: siamo ancora lontani dai livelli del Vietnam che ne ha creati 3 milioni, ma in Africa le potenzialità sono notevoli anche perché gli stipendi sono sensibilmente più bassi. Se in Cina un operaio di questo settore guadagna 500 dollari al mese, in Vietnam scende a 170. In alcuni Paesi africani, fra cui l’Etiopia, si può arrivare a 60-70 dollari al mese. Ovviamente i livelli di produttivitàsono diversi, ma si stanno aprendo prospetive interessanti legate ad una evoluzione della gestione delle catene  di fornitura.

    L’Africa, dunque, nuovo eldorado per le produzioni?
    Le aziende del settore moda si muovono molto velocemente e l’Africa può essere per loro interessante perché rappresenta una diversificazione, anche dal punto di vista dei rischi geopolitici. Torniamo all’esempio dell’Etiopia: qui stanno arrivando molti investimenti e i salari contenuti sono solo un aspetto. Il Paese presenta, infatti, infrastrutture adeguate, con un buon accesso ai porti, una forza lavoro formata e giovane, una governance del mercato del lavoro favorevole agli investitori. In più il fuso orario è lo stesso dell’Europa e il Paese ha una posizione geografica favorevole rispetto ai mercati di destinazione. Oltre ad Etiopia e Mozambico, un altro Paese che sta vedendo aumentare gli investimenti è il Kenia. Sono tutti Paesi in cui l’accresciuta stabilità macroeconomica favorisce l’afflusso di capitali. Il Rwanda, poi, è la storia che si vende meglio in Africa: in questo caso però gli investimenti non riguardano tanto il manifatturiero, quanto i servizi.

    Manifattura a basso costo. Quali i rischi e i vantaggi?
    Questi investimenti portano in generale occupazione. Eppure, quando a guidare la produzione sono investitori molto forti e organizzati come i cinesi, i Paesi di produzione non riescono a mettere in campo un’integrazione verticale di quest’industria. La materia prima viene sempre dalla Cina e i gruppi cinesi mantengono il controllo di tutta la logistica, elemento chiave per stare al passo con i tempi di rotazione veloci dei mercati dell’elettronica e del tessile .

    Un altro aspetto critico da considerare è la labour market governance, cioè il quadro normativo e fiscale che regola i rapporti di lavoro. Le aziende cercano una regolamentazione favorevole, ma spesso gli stati che ricevono investimenti produttivi non sono in grado di avere una governance ottimale o di effettuare un reale monitoraggio delle condizioni. Anche se bisogna sottolineare che nel tempo i rischi reputazionali per le grandi catene del fast-fashion stanno agendo come incentivo a migliorare le condizioni di lavoro. Ultimo elemento da considerare è che riescono ad attrarre investimenti solo quei Paesi che hanno politiche progressive dal punto di vista dell’occupazione femminile. Molte delle persone impiegate nel tessile sono, infatti, donne. E senza politiche di questo tipo le ricadute dell’investimento sull’occupazione sono molto ridotte.

    Maurizio Bussi è Direttore del Decent Work Technical Support Team (East and South-East Asia and the Pacific) dell’ILO, a Bangkok. Diplomatico internazionale con 20 anni di esperienza nell’ambito delle Nazioni Unite, ha partecipato a complessi progetti umanitari e di sviluppo, sia presso la sede centrale che in Medio Oriente e in Asia. Ha iniziato la sua carriera all’ONU nei primi anni Novanta presso il Department of Peace Keeping Operations a New York, occupandosi in particolare dell’assistenza prestata in occasione delle elezioni in Namibia e Cambogia. Ha poi occupato altre posizioni a New York, Ginevra, Gaza, Gerusalemme, Nuova Delhi e Beirut.