Una diagnosi precoce è lo strumento più efficace per combattere le malattie neurodegenerative. E le ultime tecnologie consentono di partire dalle evidenze cliniche per realizzare screening capaci di identificare il meccanismo di base molecolare di eventuali patologie. Del resto non tutte le malattie del cervello insorgono esclusivamente per ragioni genetiche: fattori ambientali, stili di vita e disturbi dell’apprendimento possono favorirne la formazione. Maria Luisa Gorno Tempini, Professore Ordinario di Neurologia presso l’Università della California, San Francisco, dove dirige il Language Neurology Laboratory e il Dyslexia Centre, spiega al sito di Aspen come e perché si possa intervenire su queste patologie già in età precoce.
Quali le relazioni tra Alzheimer, una malattia della vecchiaia e la dislessia, una disturbo caratteristico dell’infanzia?
Il modo in cui il cervello si sviluppa influenza anche il suo invecchiamento. Detto così sembra una banalità, ma in realtà siamo abituati a pensare che questo sia vero per altri organi, come il cuore. Invece, le malattie neurodegenerative non insorgono esclusivamente per ragioni genetiche. Ad esempio chi ha disturbi dello sviluppo, deficit di attenzione, iperattività o dislessia può compensare in età adulta, ma poi, con gli anni, il network cerebrale coinvolto nel disturbo di sviluppo potrebbe determinare maggiori possibilità di veder insorgere sintomi specifici.
Per capire la relazione fra un sintomo neurologico e una patologia neurodegenerativa è utile andare a studiare i meccanismi di funzionamento del cervello. In particolare, le malattie neurodegenerative cosiddette atipiche, quelle cioè che insorgono in età precoce, permettono di evidenziare più facilmente le cellule responsabili di una degenerazione. In un cervello più giovane, infatti, minori sono i fattori capaci di influenzare il processo di formazione della malattia.
Come si individuano i meccanismi di formazione delle malattie neurodegenerative?
Al centro della memoria e del comportamento dell’Università della California, San Francisco, partiamo dalla clinica e in particolare da quelli che definiamo “fattori di suscettibilità del cervello”. Questi variano in base al paziente: alcuni soggetti, ad esempio, presentano difficoltà di memoria, altri di linguaggio. Oggi siamo in grado di partire dalle informazioni offerte da una cellula delle pelle per andare a studiare i neuroni, grazie a un approccio personalizzato che dal sintomo clinico arriva fino ai meccanismi molecolari e al DNA.
Per arrivare a questo risultato usiamo metodi di analisi statistica e nuove tecnologie di neuroimaging, capaci di visualizzare determinate molecole che si depositano sul cervello. Questi nuovi strumenti ci aiutano molto: prima potevamo accedere solo a una fotografia del cervello; adesso analizzando i dati forniti dalle nuove tecnologie diagnostiche riusciamo a studiare e confrontare il funzionamento celebrale di centinaia di persone.
Qual è l’obiettivo di questi studi?
C’è molto ottimismo sull’uscita di farmaci per la cura di malattie neurodegenerative, ma la diagnosi precoce rimane in ogni caso essenziale. E i nuovi metodi di neuroimaging molecolare ci permettono analisi più accurate, consentendoci di intervenire prima sulle malattie. Tuttavia, anche se in futuro screening e mappature di questo tipo saranno sempre più accessibili (anche online attraverso la telemedicina), questo non deve fare dimenticare l’importanza di un invecchiamento attivo e salutare.
La prevenzione, anche nella malattie neurodegenerative, è tutto. Sappiamo che agire sui fattori di rischio, che sono simili a quelli cardiovascolari, può diminuire significativamente le probabilità e l’età di insorgenza di queste patologie. Quindi, esercizio fisico regolare, dieta, attività intellettuale e sociale, assenza di abitudini dannose come il fumo, sono tutti fattori che possono aumentare significativamente la “riserva cognitiva” con cui ognuno di noi è nato.
Questi fattori diventano ancora più importanti se si ha storia familiare, assetto genetico o molecolare a rischio. Valutare insieme tutti questi elementi in ogni soggetto e preparare un piano per un successfull aging è la base della cosiddetta “medicina personalizzata” all’individuo.
Che dire della ricerca sulle malattie neurodegenerative in Italia?
In Italia ci sono molti ricercatori e clinici di alto livello e poche risorse. Questo può creare rivalità quando invece è essenziale la collaborazione. Credo che da un lato sia necessario agire sul funding, magari promuovendo meccanismi virtuosi come la filantropia, su cui si regge una parte importante della ricerca negli Stati Uniti. Dall’altro è essenziale creare network di collaborazione in cui diversi ricercatori siano impegnati insieme in uno stesso progetto: vista la complessità della materia una persona da sola non è in grado di raggiungere risultati significativi ed è necessario un lavoro di team.
Infine, altro aspetto fondamentale è la garanzia di elasticità nel lavoro del ricercatore. Negli Stati Uniti un ricercatore può “comprarsi” le ore di insegnamento, trovando fondi per dedicarsi solo alla ricerca per un periodo di tempo. Questo in Italia è più difficile. E spesso rigidità e burocrazia frenano il lavoro di tanti ricercatori di talento.