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Più ottimismo per rilanciare la ricerca. Intervista a Marisa Roberto

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    • 26 Luglio 2012
    • Luglio 2012
    • 26 Luglio 2012

    Vive e fa ricerca negli Stati Uniti da 11 anni, ma è pronta a tornare in Italia se ci fosse una buona opportunità: Marisa Roberto, professore associato del Committee on the Neurobiology of Addictive Disorders allo Scripps Research Institute, in California, e membro della comunità “I protagonisti italiani all’estero” di Aspen Institute Italia, non nasconde il proprio orgoglio quando si tratta di elencare le capacità degli scienziati italiani. Per trovare nuovo lustro e tornare ad attrarre studiosi, sostiene, l’Italia dovrebbe assumere un approccio meno pessimistico: solo così potrebbe avviarsi un nuovo ciclo positivo di ricchezza economica e culturale.

    Quale percorso di ricerca l’ha portata in California?
    Dopo la laurea in biologia a Pisa nel 1996, ho proseguito gli studi scegliendo un dottorato di ricerca in neuroscienze. Al terzo anno ero a buon punto con la tesi, un professore della commissione mi propose di trascorrere un periodo all’estero e io seguii la sua indicazione. Sono partita per San Diego masticando poche parole di inglese e mi è stato assegnato subito un progetto che andava al di là di quel che facevo in Italia. Fu un’esperienza fondamentale per me: il professore mi assegnò lo studio degli effetti dell’alcol sull’amigdala e mi disse che ne avremmo discusso da lì a sei mesi lasciandomi così piena autonomia nel progetto. Trascorsi 9 mesi a San Diego generando i dati che poi inclusi nella tesi di dottorato. Una volta conseguito il dottorato, ho continuato a lavorare nel laboratorio per 8 mesi cercando un’opportunità di lavoro nell’università italiana, ma a San Diego mi avevano proposto di continuare, e quindi feci di nuovo la valigia e ripartii.

    Ha avuto modo di mettersi alla prova mentre ancora studiava in un corso di specializzazione: sul campo, qual è stata la valutazione della sua preparazione e cosa l’ha premiata?
    In Italia riceviamo una formazione di base fondamentale: quando andiamo all’estero possiamo avere una marcia in più e possiamo adattarci facilmente; ed è per questo che molti italiani hanno successo. Senza dubbio avevo una preparazione di base migliore rispetto a quella che ho trovato negli Stati Uniti, e poi sapevo muovermi in autonomia in laboratorio, senza tecnici o assistenti. Del resto ne ho avuto prova anche in Gran Bretagna, dove ho trascorso un periodo dopo la laurea.
    Negli Stati Uniti ho trovato terreno fertile: il seme l’avevo, ma ho comunque fatto la gavetta. Lavoro con dedizione, sono grata dell’opportunità che l’università americana mi ha dato e sono consapevole che propabilmente non avrei mai potuto ottenere gli stessi risultati in Italia. Tuttavia, sebbene siano ormai più di 11 anni che vivo negli Stati Uniti, il mio Paese è l’Italia ed il mio desiderio è di tornare “a casa” in futuro.

    I ricercatori italiani sono “attraenti” per la loro preparazione; cosa potrebbe rendere l’Italia altrettanto attrattiva per la ricerca?
    Se ci fosse brain circulation tutto andrebbe meglio in Italia: parlare delle cose positive annienterebbe il pessimismo. Purtroppo all’estero la mancanza di meritocrazia nel nostro Paese è un concetto radicato, così come il fatto che non si investe sufficientemente nella ricerca. Dobbiamo rendere l’Italia più competitiva e cercare di attrarre talenti internazionali . Per invertire la rotta ci vogliono anni, si tratta di cicli: se riusciremo a farlo in Italia avremo una nuova ricchezza economica e culturale. Da qui cerco di dare il mio contributo collaborando con l’Università di Camerino e organizzando congressi internazionali su stress e alcoolismo a Volterra, la mia città natale, dove si riuniscono 200 scienziati. L’Italia è l’Italia, e se posso fare qualcosa per il Paese la faccio.

    Di cosa si occupa oggi?
    Studio gli effetti dell’alcol e delle sostanze d’abuso in generale, come nicotina, cocaina e oppioidi, sul cervello. È un mondo affascinante, anche e soprattutto per me che, nonostante sia toscana e figlia di un produttore di vino, sono astemia. L’alcol e la dipendenza che può indurre sono problemi molto sottovalutati sia qui sia in Europa perché l’alcol viene considerato una droga legale, che fa parte della nostra vita quotidiana, e non una sostanza d’abuso. La questione è sottovalutata soprattutto dai più giovani: i ragazzi, iniziano a bere a 12 anni nonostante i limiti d’età legalmente imposti e i danni indotti dalle sostanze d’abuso assunte in età adolescenziale possono essere veramente drammatici. 
    Non sono, inoltre, da trascurare i costi legati all’alcolismo: i governi spendono miliardi di dollari in costi sanitari, spese indirette come la violenza domestica e incidenti automobilistici o sul lavoro. Con il team di ricerca studiamo nuove molecole che possono evolvere in potenziali trattamenti medici per limitari i danni indotti dall’ alcolismo e per fare in modo che non si riprenda a bere una volta che si è smesso.