L’applicazione alla risonanza magnetica ad alta intensità di campo di nuove soluzioni tecnologiche che migliorano la qualità delle immagini e nuove tecniche che consentono di ottenere informazioni biochimiche sui tessuti può portare a notevoli benefici in campo medico. Si evitano così – grazie ad una diagnosi precoce accurata – interventi chirurgici inutili. Riccardo Lattanzi, ingegnere biomedico e professore presso il Center for Biomedical Imaging della New York University School of Medicine, spiega al sito di Aspen quali possono essere i vantaggi dell’interazione fra ingegneri e medici nella ricerca clinica.
Un ingegnere alla New York School of Medicine. Perché?
Mi occupo principalmente di tecniche e tecnologie per la risonanza magnetica ad alta intensità di campo magnetico (7 Tesla, o 140 mila volte quello terrestre), cioè la nuova generazione di macchinari, con cui si possono ottenere immagini morfologiche ad altissima risoluzione. Il mio ambito riguarda soprattutto studi teorici per la progettazione di bobine a radiofrequenza innovative che siano capaci di creare in maniera efficiente una distribuzione uniforme di segnale in trasmissione e di massimizzare il rapporto segnale-rumore in ricezione. Ad alta intensità, infatti, il campo elettromagnetico generato dalle bobine interagisce con i tessuti biologici ed è difficile ottenere un segnale omogeneo, che consenta di interpretare in maniera diagnostica i contrasti di grigio tra regioni diverse nelle immagini. Questi problemi possono essere affrontati sia migliorando il progetto delle bobine tradizionali, sia realizzando vettori di bobine che agiscono in parallelo per un maggior controllo sulla distribuzione complessiva del campo elettromagnetico.
Quali applicazioni pratiche deriveranno da queste ricerche?
Lo scopo delle nostre ricerche è fare in modo che le risonanze magnetiche ad alta intensità di campo, attualmente presenti solo nei laboratori di ricerca, possano essere utilizzate nella routine clinica. Uno dei vantaggi di questo tipo di risonanza è che il segnale è molto più alto di quello oggi disponibile nei macchinari clinici: nel cervello, per esempio, riusciamo ad ottenere immagini ad alta qualità con una risoluzione fino a 0,2 millimetri e questo può aprire la strada a nuove prospettive diagnostiche.
Un altro argomento di ricerca di cui mi sto occupando, riguarda l’utilizzo della risonanza magnetica per ottenere informazioni biochimiche dei tessuti. Ad esempio, utilizzando appropriati protocolli per l’acquisizione del segnale di risonanza, è possibile diagnosticare precocemente lo stato di salute della cartilagine articolare misurando in maniera indiretta la concentrazione di alcuni composti biochimici. Questo consente di stabilire se la cartilagine che appare intatta nelle immagini morfologiche, è effettivamente sana anche a livello biochimico, oppure è già compromessa irrimediabilmente. Si tratta di un’informazione molto importante per i chirurghi ortopedici, perché alcune operazioni alle articolazioni hanno esito positivo solo se la cartilagine non è rovinata al momento dell’intervento. Quindi, una diagnosi preoperatoria accurata potrebbe evitare operazioni inutili a vantaggio dei pazienti e del sistema sanitario.
Quale percorso formativo l’ha portata a integrare ingegneria e medicina?
Il mio interesse per l’ingegneria applicata alla medicina risale alla laurea in ingegneria elettronica con indirizzo biomedico all’Università di Bologna. Scelsi un progetto di tesi in collaborazione con il laboratorio di tecnologia medica dell’ospedale ortopedico Rizzoli, che mi consentì di lavorare a stretto contatto con medici e ingegneri. In seguito ho conseguito il Ph.D. negli Stati Uniti, frequentando un joint program fra MIT e Harvard Medical School, che integrava ancora di più le due discipline, prevedendo esami di ingegneria all’MIT e esami di medicina ad Harvard. Quando si fa ricerca biomedica è fondamentale conoscere le esigenze e il linguaggio dei medici, non solo per trovare soluzioni ai problemi clinici, ma anche per far sì che siano capite e adottate al meglio.
La laurea italiana in ingegneria mi ha dato un metodo di studio che ho portato avanti durante il dottorato e che mi ha aiutato molto. Credo che gli ingegneri formati in Italia siamo molto preparati. Anche per questo sto cercando studenti di ingegneria elettronica da portare a New York per progetti di ricerca in collaborazione con atenei italiani.
Se l’Italia presenta un buon livello di formazione in campo ingegneristico, come valorizzarne le eccellenze?
I programmi congiunti, in cui gli studenti svolgono parte del dottorato, o della laurea specialistica, all’estero, siano molto utili e facili da implementare, o replicare sul modello di quelli già esistenti in alcuni dipartimenti. Il dottorato italiano, però, dovrebbe essere riformato, inserendo maggiori requisiti di qualità e incentivi che attraggano studenti dall’estero. Per quel che riguarda le scienze biomediche, invece di disperdere le risorse in tanti dipartimenti che spesso si occupano di degli stessi argomenti di ricerca, sarebbe più efficace creare dei grandi centri di ricerca specializzati per ottenere la massa critica necessaria a ottenere visibilità internazionale.
Infine, esiste una questione culturale: se l’Italia vuole valorizzare le proprie eccellenze, deve investire sulla divulgazione scientifica. Non è solo un problema di mancanza di attenzione da parte dei media: in America le università hanno i propri uffici stampa che pubblicano quotidianamente articoli divulgativi sulle ricerche dei professori e degli studenti. Questo serve certamente per fare marketing, ma consente anche al grande pubblico di capire e apprendere ciò che invece sarebbe disponibile solo sulle riviste scientifiche specializzate. E, ancora più importante, può aiutare e stimolare i ragazzi ad intraprendere un percorso formativo scientifico.