Prima come procuratore al Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda , esperienza raccontata in un libro pubblicato da Mondadori “Mentre il mondo stava a guardare”, vincitore del premio “Carlo Levi”, e poi a capo della Cancelleria della Corte Penale Internazionale, (l’istituzione con sede all’Aja che si occupa di casi delicati come la Libia e il Sudan). Una carriera in cui Silvana Arbia ha potuto contare non solo sulla “profonda cultura giuridica” data dalla formazione e dall’esperienza di magistrato in Italia; nelle situazioni più difficili, spiega al sito di Aspen, è determinante anche quella flessibilità “tipica del nostro approccio”.
Dopo vent’anni in magistratura in Italia si è occupata di guidare l’accusa al Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda. Quali elementi della sua esperienza le sono risultati utili in un contesto così delicato?
Credo che la flessibilità, così tipica dell’approccio italiano, dia la capacità di saper affrontare situazioni difficili, di essere più aperti nel lavoro. All’inizio, al Tribunale internazionale per il Rwanda, dove facevo il procuratore, mi è capitato di confrontarmi con alcune perplessità da parte dei colleghi internazionali. Pensavano, infatti, che il sistema applicato da quel tribunale – che era prevalentemente basato sul common law – fosse un po’ estraneo alla mia esperienza, maturata nella magistratura italiana e fondata, invece, sul civil law e poi su un sistema misto. Tuttavia dopo i primi mesi hanno dovuto ammettere che il background, la preparazione di un giurista italiano era – e non è presunzione – molto più profonda. Non dico superiore, dico profonda: non si tratta, infatti, solo della preparazione, ma anche dell’impostazione. La differenza, credo, sia data dal metodo con cui analizzare una questione giuridica e trovare la soluzione adeguata: per questo ritengo che noi italiani abbiamo da esportare non solo cultura ed esperienza giuridica, ma anche flessibilità.
Nella sua storia professionale l’essere italiana ha rappresentato un fattore positivo?
Essere italiani, certo, a volte può risultare un vantaggio. Mi capita spesso, anche nella mia attuale esperienza, di vedere citata accanto alla qualifica professionale anche la mia nazionalità, segno che c’è un apprezzamento nei confronti della cultura italiana e dell’immagine del Paese. Inoltre, anche nel lavoro alla Corte Penale Internazionale, noto che i colleghi italiani sono ben considerati per la loro apertura e la facilità di adattamento. È un punto di partenza positivo, anche se ritengo che il primo passo da fare sia quello di rendere più visibile e comprensibile la nostra cultura fuori dei confini nazionali. In questo gli italiani all’estero possono certamente essere utili, come ambasciatori del Paese nei rispettivi ambiti professionali.
Questo apprezzamento che l’Italia suscita all’estero può rivelarsi un vantaggio per il Paese?
Certamente. Vivendo all’estero si capisce davvero che l’Italia è molto apprezzata. Si tratta di una risorsa che però deve servire per attrarre talenti: solo così si accrescono le risorse del Paese e si può parlare di crescita e di sviluppo. Con questa finalità sarebbe utile promuovere l’Italia come sede di progetti o di istituzioni permanenti di rilevanza internazionale. Aggiudicarsi la sede di un’istituzione internazionale è, infatti, un grande elemento di attrazione e il nostro paese in questo dovrebbe investire di più, magari attraverso progetti istituzionali che promuovano la circolazione internazionale dei professionisti o con iniziative che diano visibilità all’estero. La Corte Penale Internazionale, ad esempio è nata con lo Statuto di Roma, nel luglio del 2002. Perché non organizzare eventi che ricordino questo anniversario?
Come valorizzare, invece, le eccellenze italiane? È possibile rafforzare i legami tra il nostro Paese e il resto del mondo?
La chiave credo sia quella di aprirsi al mondo senza svilire la nostra cultura. Non credo che il problema di attrattività dell’Italia sia attribuibile alla barriera linguistica o alla scarsa disponibilità di programmi di studio in inglese; anzi spesso chi è interessato al nostro Paese e alla nostra cultura vuole studiare anche l’italiano. Bisognerebbe piuttosto usare le condizioni favorevoli che abbiamo per impiantare progetti e per internazionalizzare il sistema-Paese. Abbiamo tutto per farcela: l’Italia piace e non è solo per il clima o per il paesaggio; piace per lo stile, per il modo di fare. E, soprattutto, ha una grande reputazione e un grande appeal presso i Paesi emergenti.