In un mondo in cui l’inglese ha ormai l’indiscusso primato di veicolo di comunicazione globale, l’italiano deve trovare il proprio ruolo. Tuttavia una lingua non può essere tutelata –spiega Joseph Lo Bianco, ex presidente dell’Australian Academy of Humanities ed esperto di language planning – se non è protagonista quotidiana di tutti gli ambiti di un’economia avanzata. La miglior soluzione? Una politica linguistica che tuteli l’italiano nell’ambito del multilinguismo globale, puntando su tre momenti fondamentali: l’insegnamento della lingua nazionale a chi arriva in Italia, come trasmissione di un concetto pratico di cittadinanza, i legami con le comunità degli oriundi italiani all’estero e la diffusione della lingua italiana come strumento di cultura in tutto il mondo.
In che modo si può sostenere e promuovere l’uso dell’italiano nel mondo ?
L’interesse che l’italiano suscita nel mondo é un’opportunità straordinaria che non va sprecata. L’affermazione dell’inglese come lingua franca globale ci porta a considerare un concetto cardine della sociolinguistica: una collettività non ha bisogno di due lingue per fare le stesse cose. Il punto di partenza, allora, é una semplice domanda: quale deve essere il ruolo dell’italiano in Italia e nel mondo? Ogni politica linguistica deve partire da qui. I risultati più interessanti raggiunti nel language planning indicano che mezzi straordinari di protezione non sono efficaci. La politica di tutela e di cura di una lingua parte, infatti, dal suo uso quotidiano.
Quali interventi sono necessari?
Bisogna intervenire in tre modi: il primo è l’insegnamento dell’italiano agli stranieri che arrivano in Italia; il secondo è il mantenimento dell’italiano fra oriundi italiani all’estero, sottolineando il ruolo di identità e di collegamento che la lingua comune offre; il terzo equivale più o meno a quello che già si fa oggi, cioè la promozione dell’italiano come lingua straniera nel mondo. Queste tre modalità di azione derivano dallo stesso impulso, dalla stessa necessità: lo sviluppo linguistico nel quadro di una politica coerente e lungimirante.
La mia esperienza e i miei contatti con le istituzioni e con la diplomazia italiane mi fanno dire che in Italia l’importanza della politica linguistica non viene percepita adeguatamente.
A New York esistono milioni di italoamericani, ma non esiste un giornale in lingua italiana. Inoltre, non si può basare la promozione di una lingua all’estero solo sull’insegnamento nelle scuole. Le politiche linguistiche di successo partono dall’importanza e dalla vivacità di una lingua nella vita quotidiana. Per capire gli effetti di una politica basata esclusivamente sulla tutela legale e sull’insegnamento scolastico bisogna guardare a quanto avvenuto in Irlanda: sono 4 milioni le persone che conoscono l’irlandese, ma solo 57.000 lo parlano. Questo fatto dimostra che la conoscenza di una lingua e il suo uso quotidiano sono infatti due aspetti diversi.
Test obbligatori di lingua per acquisire la cittadinanza. Funzionano?
Non funzionano perché in molti casi si tratta di test poco raffinati che non incidono direttamente sul problema della conoscenza e dell’uso quotidiano della lingua. In Australia, ad esempio, questi esami sono molto criticati e attualmente sono diventati meri test pro-forma. Tuttavia è evidente che gli immigrati hanno bisogno di avere una conoscenza della lingua per interagire a livello sociale. Bisogna puntare su una cittadinanza pratica, più che su una cittadinanza simbolica. Qui in Australia è dal 1948 che il Governo promuove, per gli immigrati, un corso di oltre 500 ore, finalizzato all’apprendimento della lingua nazionale in cui vengono, però, affrontati gli aspetti linguistici della quotidianità. Sono convinto che questa sia la strada anche per evitare l’aumento del razzismo che vediamo in tanti Paesi: investire sulla capacità linguistiche, sociali, ma anche imprenditoriali degli immigrati. In questo modo gli aspetti linguistici diventano parte di una politica lungimirante, destinata a sostenere oggi chi pagherà le tasse e finanzierà lo stato sociale fra venti e più anni.
Al Politecnico di Milano si è vietato di tenere corsi esclusivamente in inglese. Come si concilia l’internazionalizzazione del sistema educativo con la tutela della lingua nazionale?
Sono convinto che sia necessario trovare un equilibrio all’interno del quadro internazionale: l’inglese è la lingua incontrastata a livello globale, ma l’italiano deve essere presente nella produzione culturale e scientifica del Paese. Non si può avere, infatti, un ruolo internazionale, se non si è protagonista in tutti gli ambiti di un’economia sviluppata. La Svezia presenta un caso di studio interessante: molti studiosi di discipline avanzate – ad iniziare dalla fisica nucleare – non in passato non erano più in grado di condividere saperi e scoperte con il pubblico nazionale. Questo avveniva perché gli studi e le ricerche erano effettuate esclusivamente in inglese e alcuni termini scientifici non esistevano o non venivano più utilizzati in svedese. La Svezia ha deciso così di cambiare rotta: non ha eliminato l’insegnamento in inglese, ma ha inserito nei corsi moduli intensivi in svedese sulle diverse discipline. Politiche simili sono state adottate anche in Danimarca e in Germania, permettendo agli scienziati di influire nel dibattito pubblico nazionale, pur senza ostacolarne il collegamento con la comunità scientifica internazionale.
Joseph Lo Bianco è ex Presidente dell’Australian Academy of the Humanities e Professore di Language and Literacy Education alla University of Melbourne in Australia. Nato in Australia da genitori italiani, Lo Bianco ha formulato nel 1986, su richiesta del Governo australiano, il piano nazionale per la programmazione delle risorse linguistiche; testo che è stato utilizzato come base per le politiche linguistiche in altri Paesi del mondo. Tra i riconoscimenti ottenuti per il suo lavoro vi sono i titoli di Order of Australia (1997) e di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (1999).