Un’archeologa italiana al lavoro nell’antica Costantinopoli. Alessandra Ricci, laurea alla Sapienza e PhD a Princeton, insegna presso il Dipartimento di Archeologia e Storia dell’Arte della Koç University ad Istanbul. Nell’antica capitale dell’impero bizantino non ha trovato solo stimoli ai propri studi sulla tardo-antichità: nel 2005 ha partecipato, infatti, alla creazione del Research Center for Anatolian Civilizations, dirigendolo fino al 2009. Un centro che in pochi anni è diventato un luogo di attrazione per studiosi di scienze umanistiche provenienti da tutto il mondo.
Da Princeton a Istanbul. Quali opportunità offre la Turchia a un’archeologa italiana formatasi negli Stati Uniti?
La Turchia è un territorio che offre possibilità di ricerca straordinarie. A portarmi qui sono stati i miei studi sulla tardoantichità e sul periodo bizantino, oltre alla possibilità di mettere in pratica quanto avevo appreso durante il PhD negli Stati Uniti. Negli ultimi decenni la Turchia è riuscita, infatti, a ribaltare radicalmente l’immagine di un terra di conquista in campo archeologico. È diventata un centro di attrazione culturale, di ricerca e di formazione nelle discipline umanistiche. Nel 2005 quella che è divenuta l’università di mia affiliazione, la Koç University, mi ha proposto di partecipare alla creazione di un centro di ricerca, il Research Center for Anatolian Civilizations, finalizzato ad attrarre ricercatori stranieri. È stato il primo centro nel paese ad opera di un’istituzione locale, realizzato con lo scopo di promuovere studi interdisciplinari su tutti i periodi storici rappresentati nei territori della moderna Turchia, tramite un programma di borse di ricerca, conferenze, workshop e lezioni universitarie per studiosi turchi e non solo. Siamo riusciti a farlo diventare un catalizzatore delle discipline umanistiche e a formare ogni anno 24 ricercatori provenienti da tutto il mondo.
Quali condizioni hanno reso possibile la creazione di questo centro di eccellenza?
Da un lato c’è stata la volontà da parte delle istituzioni e della classe dirigente di facilitare gli investimenti nella cultura e nella ricerca in campo umanitisco. Il Research Center for Anatolian Civilizations è iniziato grazie ad un “endowment”, una donazione di una famiglia turca, interessata a sostenere uno specifico campo di ricerca e formazione, una pratica molto diffusa negli Stati Uniti e che sarebbe bello vedere più spesso anche in Italia. Dall’altro lato devo dire che alla Koç University, come del resto avevo già sperimentato a Princeton, ho trovato una grande possibilità di confrontarmi con i colleghi e di formulare proposte che venissero considerate e accolte. Grazie a questa circolazione di idee siamo riusciti a creare un laboratorio di scienze applicate all’archeologia, classificando in quattro anni il nostro dipartimento di Archeologia e Storia dell’Arte fra i migliori della Turchia. In tutta la Koç possiamo contare su un numero assai elevato di finanziamenti europei, superando spesso anche le università italiane. E questo nonostante le difficoltà di accesso ai fondi dettate dal fatto che siamo in un paese al di fuori della Unione Europea.
Esperienze di questo genere sono replicabili in Italia? Come valorizzare l’immenso patrimonio culturale del nostro paese?
Ritengo che, generalmente, quando si dà a un italiano la possibilità operare concretamente si possano raggiungere grandi risultati. E questo dovrebbe accadere più spesso anche in Italia. Nel nostro paese non riusciamo più a mettere a valore lo straordinario patrimonio di conoscenza. Siamo chiusi in noi stessi e limitati da network predefiniti. Dobbiamo abituarci ad ascoltare, ad essere più inclusivi e meno esclusivi, a formare ed a vedere nella formazione dei migliori una occasione di avanzamento del bene comune che è ricerca. Inoltre, stabilire delle piattaforme di comunicazione di quanto di meglio abbiamo per creare interesse ed un senso di appartenenza ad una comunità dinamica. Non è più sufficiente “possedere” come nazione un patrimonio museale e culturale ineguagliabile: bisogna renderlo vicino e accessibile alle persone ma anche aprirlo alla ricerca, allo scambio ed alla formazione secondo parametri di contemporaneità.
Qual è stato il contributo della formazione ricevuta in Italia alla sua carriera di archeologa?
Sono arrivata a Princeton per un PhD nel Department of Art & Archaeology dopo la laurea alla Sapienza di Roma. Negli Stati Uniti mi sono resa conto di poter vantare una formazione superiore nella conoscenza della filosofia e delle lingue classiche, anche se non ero abituata alla collegialità, al dialogo e allo scambio su cui si basava la vita accademica. Soprattutto non ero stata educata al pensiero analitico e critico negli studi universitari. Sicuramente, però, quello che mi ha aiutato di più è stata l’esperienza pratica maturata in Italia: ho iniziato a fare archeologia sul campo a 14 anni grazie alla tradizione e all’altissimo standard che il nostro paese ha in materia di volontariato. E questa esperienza mi ha dato moltissimo anche nell’organizzazione del lavoro: quelle abilità legate all’approccio italiano, alla concretezza, al cercare soluzioni pratiche ai problemi si sono rivelate, infatti, molto preziose.