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Fisica quantistica, pittura, musica classica: un modo solo per capire il mondo. Intervista a Carlo Rovelli

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    • 30 Maggio 2013
    • Maggio 2013
    • 30 Maggio 2013

    “Recuperare il senso del sapere generale” per dare ai giovani una formazione completa, in cui la cultura scientifica sia una parte fondamentale. Carlo Rovelli, ordinario di fisica teorica all’Aix-Marseille Université – dove svolge attività di ricerca presso il Centre de Physique Théorique – è fra gli iniziatori della gravità quantistica a loop. Al sito di Aspen spiega come ridare centralità alla cultura scientifica possa aiutare a rilanciare il sistema formativo italiano: “Alla fine – dichiara – negli affreschi di Piero della Francesca come nella meccanica quantistica, c’è quella stessa profondità di pensiero che ci aiuta a capire meglio il mondo”.

    Quanto è ancora attuale in Italia la dicotomia tra cultura umanistica e scientifica? Manca la consapevolezza dell’importanza della scienza?
    Credo che in Italia manchi la chiara percezione della cultura come insieme vasto e complesso, che abbraccia tutto il sapere filosofico e scientifico. La cultura scientifica è, infatti, una parte fondamentale della nostra civiltà: istruire i giovani ed essere persone di cultura vuol dire insegnare loro a commuoversi per Beethoven, ma anche per un articolo di Einstein. Alla fine, negli affreschi di Piero della Francesca come nella meccanica quantistica, c’è quella stessa profondità di pensiero che ci aiuta meglio a capire il mondo. In Italia, però, cultura umanistica e cultura scientifica sembrano spesso mondi diversi e incomunicabili. Per questo credo che ci sia bisogno di recuperare un senso del sapere generale, stimolando un cambio di mentalità e rompendo l’idea che esitano due culture diverse e non sovrapponibili. E forse nelle scuole italiane bisognerebbe insegnare di più la scienza, integrandola e non sostituendola alla formazione umanistica, che rimane fondamentale. Molti fra i migliori scienziati italiani hanno frequentato, infatti, il liceo classico.

    L’Italia rivendica una tradizione di primo piano nella fisica. È una convinzione ancora valida?
    Certo, la tradizione italiana della fisica è ancora viva. Al CERN –  il più grande laboratorio di fisica non d’Europa, ma del mondo – ci sono scienziati di tutte le nazionalità, ma una è nettamente più rappresentata: quella italiana. Una volta ho chiesto spiegazioni ai dirigenti del laboratorio e questi hanno ammesso che la motivazione è semplice: gli italiani sono più bravi, sanno risolvere i problemi, hanno più cultura, sono più inventivi, lavorano bene in team. Insomma, credo che la scienza italiana sia ancora ad uno dei livelli più alti al mondo e che gli scienziati italiani siano ancora ascoltati con grande attenzione. Ovviamente non dimentichiamo che il mondo scientifico non sta certo seguendo l’Italia. E in questo c’è un rischio: se l’Italia continua a non offrire adeguate risorse alla ricerca anche l’eccellenza della fisica prima o poi finirà.

    In che modo la fisica teorica contribuisce alle altre discipline scientifiche e quali le sfide ancora aperte per voi ricercatori?
    Dobbiamo pensare alla fisica come a qualcosa di fondamentale: non ci sarebbero l’ingegneria, l’elettronica, le telecomunicazioni se non ci fossero stati Maxwell, Newton, e altri. Questa disciplina è il cuore del nostro sapere e ci offre un’immagine del mondo che si è sviluppata nel XX secolo e che oggi ha ancora dei buchi enormi. Proprio su questi buchi stiamo cercando di lavorare, iniziando dal combinare la teoria dei quanti con la teoria della relatività di Einstein: si tratta in fondo del Santo Graal della fisica teorica. Ci sono teorie che sembrano in grado di risolvere il problema, ma al momento stiamo percorrendo strade diverse. E le scuole sono in guerra fra di loro; si tratta, bisogna dirlo, di una “guerra buona”, perché siamo di fronte ad idee che si scontrano e cercano di imparare l’una dell’altra, nella speranza di contribuire a una soluzione che ci dica qualcosa di più sul mondo. Il “campo di battaglia” si chiama gravità quantistica ed è in fondo la grande questione ancora aperta per i fisici di tutto il mondo.

    Resta determinante un buon livello di preparazione di base. Come trasferire questo punto di forza nella ricerca scientifica?
    Credo che si debbano assumere più giovani all’università. E ovviamente dare priorità ai più bravi senza procedere a quei tagli che alla lunga impediscono di avere nuove energie. Certo, si possono fare interventi mirati partendo ad esempio dal dottorato che, come è attualmente formulato in Italia, sarebbe da ripensare. Il modello rimangono le università anglosassoni: le scuole di dottorato sono state trasformate nel vero momento di formazione scientifica.  Il problema, forse, è che il dottorato italiano è un’istituzione troppo giovane rispetto ad altri Paesi e che l’accademia, nel complesso, non ha investito molto nel creare vere scuole.  Laddove però le università si impegnano a fondo non mancano ottimi esempi anche in Italia: penso alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste che mi ha veramente impressionato: se un gruppo di giovani – come quelli che ho visto io – dibatte vivacemente vuol dire che la scuola sta davvero funzionando.