Scovare la presenza di una lesione tumorale prima che i sintomi siano evidenti, attraverso un esame del sangue: questo lo scopo della ricerca di Alessandra Luchini, Assistant Professor al Center for Applied Proteomics and Molecular Medicine della George Mason University, in Virginia, negli Stati Uniti. Un obiettivo che può perseguire anche grazie all’alto livello di preparazione ottenuto in Italia. Del resto la forma mentis duttile e versatile degli studiosi italiani – racconta Luchini, membro della comunità “I protagonisti italiani all’estero” di “Aspen Institute Italia” – è una capacità sempre più riconosciuta nei team di ricerca degli Stati Uniti.
Le nanotecnologie possono dare un contributo decisivo in campo diagnostico. Quali conseguenze ha la sua ricerca per la lotta contro il cancro?
Il mio principale progetto riguarda lo sviluppo di reagenti e tecnologie che permettano di potenziare le attuali potenzialità della diagnostica medica e di vedere molecole altrimenti invisibili. Detto in altri termini, lo scopo della mia ricerca è di sviluppare in futuro un esame del sangue che permetta di determinare la presenza di una lesione tumorale anche molto piccola, prima che i sintomi siano evidenti. Le tecnologie di cui disponiamo oggi, però, non hanno la sensibilità adeguata a quantificare le molecole che emanano da una massa tumorale agli stadi iniziali: è qui che intervengono le nanotecnologie, attraverso piccole sfere di misure submicrometriche. Il progetto che seguo è di 2-3 anni; abbiamo messo a punto nanoparticelle che catturano le molecole target e ci permettono di vederle. La difficoltà sta nel fatto che queste molecole esistono in bassissime concentrazioni e sono fragili, vengono distrutte molto velocemente. Le stesse nanoparticelle sono applicabili anche nella diagnosi delle malattie infettive, come la tubercolosi, la malattia di Lyme (che si contrae dalle zecche e, se trascurata, porta a danni cardiaci, neurologici e all’artrosi) o la malattia di Chagas, diffusa in America Latina e che sta arrivando negli Stati Uniti. Un’altra applicazione, infine, riguarda l’antidoping: stiamo collaborando con agenzie europee proprio in questo senso.
Come è arrivata a occuparsi di nanotecnologie alla George Mason University?
Dopo la laurea in ingegneria chimica a Padova, ho continuato il mio percorso con il dottorato in bioingegneria, e fu proprio in quel periodo che trascorsi un periodo di ricerca alla George Mason. Arrivai qui sei anni fa nell’ambito di un programma di oncoproteomica sponsorizzato dall’Istituto Superiore di Sanità, che finanziava giovani ricercatori con borse di studio della durata di un anno, eventualmente rinnovabile. Ero venuta per sviluppare software, nuovi algoritmi statistici per dati biologici, per classificare patologie. Oggi mi occupo di nanotecnologie per la diagnosi e prognosi del cancro e di altre patologie in generale.
Che ruolo ha giocato la preparazione accademica ricevuta in Italia?
Nella mia personale esperienza, il luogo comune della facile adattabilità degli italiani era valido: gli americani hanno un’educazione molto settoriale, legata al dettaglio. Si tratta di un approccio funzionale, che da buoni risultati soprattutto in determinati campi. Ma gli americani non si sognerebbero mai di fare un lavoro per il quale non hanno una preparazione certificata. Il punto di forza delle università italiane l’ho sperimentato nell’attività di tutti i giorni: alta preparazione e, soprattutto, versatilità. Quando nel corso di 6 anni si sono succeduti una trentina di ragazzi italiani qui nel mio laboratorio, anche loro hanno potuto riscontrare l’altissima opinione dei livelli di preparazione che l’Italia gode nei campi della biologia, medicina, farmacia, biotecnologie, matematica. E poi si tratta sempre di persone molto motivate.
Anche nel suo settore, quindi, l’Italia gode di buona fama.
Assolutamente: basta guardare quali gruppi e laboratori pubblicano studi sulle riviste maggiori. Sicuramente nell’ambito oncologico c’è una grandissima componente italiana. La localizzazione non preclude l’eccellenza nella scienza, è assolutamente falso. Abbiamo collaborazioni molto strette con laboratori italiani, sia nelle Università che negli IRCCS.