Per vedere sulle nostre strade veicoli a guida autonoma bisognerà aspettare qualche anno, forse un decennio. Ma intanto il settore è in rapidissimo sviluppo, anche grazie ai ricercatori che studiano le implicazioni di questo nuovo modello di mobilità nel sistema attuale di trasporti. Fra di loro Marco Pavone che, come direttore del laboratorio sui Sistemi Autonomi a Stanford, e Co-Direttore del Centro per l’Automotive Research di Stanford, sta affrontando le diverse questioni critiche di questa tecnologia: dalle modalità di apprendimento degli algoritmi al dibattito sulla sicurezza dei veicoli a guida autonoma.
A che punto è lo sviluppo dei veicoli a guida autonoma?
Si tratta di un sistema tecnologico complesso, composto a sua volta da tecnologie molto differenti che devono lavorare bene insieme. Ci sono – è vero – diverse applicazioni in fase avanzata, a partire dai software e dai sensori che già vengono utilizzati in ambito automobilistico per l’assistenza alla guida. Non dobbiamo dimenticare, poi, che esistono mezzi già operativi in contesti particolari: pensiamo a cantieri, porti, impianti industriali dove la complessità dell’interazione fra macchine e umani è ridotta rispetto a una strada, e il processo di apprendimento da parte dei veicoli autonomi è semplificato.
In generale sono abbastanza ottimista e penso che nel giro di qualche anno i primi veicoli a guida autonoma potranno essere disponibili su larga scala. Perché questa tecnologia diventi pervasiva, invece, bisognerà aspettare almeno un decennio.
Dobbiamo guardare allo sviluppo di questi veicoli come ad un continuum. Pensiamo al mondo dell’aviazione: quando fecero volare il primo aereo, i fratelli Wright non avevano idea che un giorno un apparecchio avrebbe potuto coprire agevolmente la distanza fra Europa e Stati Uniti. Nel settore della guida autonoma è lo stesso, anche se il processo sta avvenendo molto più rapidamente.
Quali sono gli aspetti critici dello sviluppo di questa tecnologia?
Le criticità da affrontare sono sia di carattere tecnologico, sia di carattere sistemico, cioè relative all’integrazione dei veicoli a guida autonoma nel sistema della mobilità. Per gli aspetti tecnologici una parte fondamentale è l’interazione con l’essere umano. I veicoli a guida autonoma devono essere in grado di predire in maniera probabilistica i comportamenti di un altro essere umano – automobilisti, pedoni, ciclisti – e usare questa informazione per prendere decisioni e anticipare possibili azioni altrui. Quando guidiamo negoziamo costantemente le nostre azioni con gli altri “agenti” sulla strada. Per un robot si tratta di un compito molto complesso che richiede sistemi decisionali avanzati di intelligenza artificiale.
Tuttavia, se intendiamo l’intelligenza come la capacità di generalizzare i nostri comportamenti anche in situazioni a noi sconosciute, dobbiamo dire che le macchine hanno ancora davvero poco di intelligente. Noi riusciamo a valutare una persona con un esame di guida di pochi minuti, ma per un’auto a guida autonoma ci vogliono milioni di chilometri di esperienza. Questo perché le macchine non riescono a generalizzare bene il loro comportamento. Nel mio laboratorio di Stanford stiamo lavorando proprio su algoritmi in grado di prevedere i comportamenti umani, in maniera probabilistica, attraverso un percorso di apprendimento basato sull’esperienza.
Quando si potrà considerare sicuro un sistema di guida autonomo?
Il concetto di sicurezza dei veicoli autonomi è dibattuto e siamo ancora lontani da definizioni condivise. Diverse sono le questioni in campo che devono essere affrontate da tutto l’ecosistema della mobilità. Possiamo ritenere sicura un’auto a guida autonoma se presenta un tasso di rischio di incidente inferiore a quello di un veicolo guidato da un essere umano? Quanti chilometri sono necessari per l’apprendimento? In quali condizioni di traffico e meteorologiche?
Non dimentichiamoci che l’esperienza per i veicoli a guida autonoma cambia in ogni contesto locale e che, quindi, le macchine devono sperimentare ogni ambiente, percorrendo migliaia di chilometri in ogni città in cui vengono messe in servizio. È un processo molto complesso. Il vantaggio è che, a differenza degli esseri umani, gli algoritmi possono condividere immediatamente fra di loro l’apprendimento. Per cui l’apprendimento realizzato da un veicolo può estendersi a tutti i mezzi in circolazione.
La guida autonoma potrà avere un futuro in Italia, Paese di grande tradizione automobilistica?
Le opportunità sono enormi e credo che in Italia la sfida della ricerca non sia persa. Io sto lavorando insieme al Politecnico di Milano per realizzare un corso analogo a quello che tengo a Stanford, dedicato alle tecnologie di guida autonoma. Credo che formare i primi giovani possa far iniziare un circolo virtuoso.
Se guardiamo a quello che sta succedendo in Silicon Valley, dove le aziende legate al mondo automotive sono cresciute in maniera esponenziale negli ultimi cinque anni, vediamo che ci si sta concentrando molto sul software. Se si fa eccezione per Tesla, la maggior parte delle imprese sviluppa la parte tecnologica e si appoggia a produttori tradizionali per il veicolo vero e proprio. Questo non vuol dire, però, che la produzione tradizionale di auto non debba affrontare importanti mutamenti.
In un mondo che va sempre più verso la condivisione dei veicoli resta fondamentale la possibile riduzione della domanda rispetto ai livelli attuali. Un’altra questione riguarda la concorrenza dei Paesi dove l’assemblaggio è più competitivo grazie al basso costo del lavoro. Credo che, anche per questo, le economie avanzate come l’Italia debbano puntare decisamente sullo sviluppo di software. Il settore dei trasporti, rimasto sostanzialmente stabile per quasi un secolo, sta cercando oggi un nuovo modello di business redditizio che riesca a far funzionare insieme tutte le nuove tecnologie: dalla mobilità condivisa, alla guida autonoma, passando per l’elettrificazione.
In un mondo governato dagli algoritmi che destino avranno le automobili sportive?
Chi può comprarsi una “supercar” lo continuerà a fare e vorrà guidarla, magari con l’assistenza di sistemi tecnologici evoluti. I dati economici del resto indicano che la platea di persone ricche, desiderose di comprarsi un’auto sportiva di lusso è in crescita in tutto il mondo. In fondo succederà quello che è successo con i cavalli: da mezzo di trasporto per tutti sono diventati uno sport destinato solo agli appassionati.
Marco Pavone è Professore Associato di Aeronautica e Astronautica presso la Stanford University, dove dirige il Laboratorio sui Sistemi Autonomi. Sempre a Stanford è Co-Direttore del Centro per l’Automotive Research. Prima di divenire professore a Stanford nel 2012, ha lavorato alla NASA come Research Technologist al Jet Propulsion Laboratory, all’interno del gruppo dedicato alla robotica.