Abbandonare l’idea tradizionale del museo per farne un luogo di aggregazione, capace di diffonde cultura a 360 gradi. In città ancorché ricche di storia ma aperte alla modernità. Questa la sfida che le città e le istituzioni museali italiane dovrebbero cogliere, sulla scia dell’esperienza di altri Paesi europei. A spiegarlo è Annamaria Indrio, partner dello studio di architettura danese Norrøn, con esperienza internazionale nella progettazione di musei.
Come si crea oggi un museo?
I musei fino a qualche tempo fa erano meri luoghi del sapere e non sembravano aver bisogno di altro. In Italia, del resto, ci sono collezioni incredibili di opere d’arte e le strutture museali possono attrarre i visitatori senza grandi sforzi. Nel frattempo però i musei, in Europa e nel mondo, sono diventati edifici di cultura in senso molto più vasto.
Le strutture italiane non sempre reggono il passo: certo, hanno migliorato i servizi al pubblico, con centri ristoro e piccoli bookshop, ma faticano ad introdurre altre funzioni e ad assumere un ruolo di leadership culturale nelle città che li ospitano. Chi non innova potrà pure mantenere un certo numero di visitatori, attratti dalla rilevanza delle opere esposte, ma non riesce a proiettarsi nel futuro.
Non a caso a guidare il cambiamento sono quei Paesi, come la Danimarca o la Gran Bretagna, dove la minor ricchezza artistica obbliga a pensare a nuove formule. Il Museo Statale d’Arte che ho progettato a Copenhagen, ad esempio, diventa una volta al mese un luogo di aggregazione per i giovani; una scelta che fa da traino all’offerta culturale della struttura. I danesi sono molto attenti alla promozione e alla diffusione della cultura, senza per questo abbassare la qualità. Non è un caso che questo museo stia pensando a una nuova sede nella regione più periferica dello Jutland, con l’obiettivo di estendere e decentralizzare la propria funzione culturale.
Città italiane, ovvero tanta storia. Come innovare architettonicamente?
In Italia abbiamo esempi diversi. Milano si è posta come obiettivo la modernità e cerca di proporre un modello simile a quello di Londra, ad iniziare dalla scelta di densificare la città con le torri. A Roma, invece, interventi di questo genere in aree così centrali sarebbero impensabili: c’è da un lato una legittima sensibilità a preservare un centro storico così monumentale e importante; dall’altra parte però esiste anche una certa fobia del moderno. Copenhagen, dove funziona una governance multi-livello che coinvolge i quartieri, può offrire un modello di equilibrio: nel centro storico della città, piccolo ma molto omogeneo dal punto di vista architettonico, le torri non sono state ammesse, mentre i nuovi edifici moderni sorgono in altre zone. Questa scelta di differenziare gli interventi può funzionare anche per Roma dove, del resto, il Maxxi di Zaha Hadid, in periferia, ha ricevuto un’ottima accoglienza, mentre il Museo dell’Ara Pacis di Mayer è da anni oggetto di controversie.
Come giudica la qualità delle università e delle scuole italiane di architettura?
Fino a una quindicina di anni fa le scuole danesi erano contrarie agli scambi Erasmus con l’Italia per la carenza della formazione tecnica degli atenei italiani. Questo è cambiato notevolmente negli ultimi anni. Personalmente ho avuto in studio moltissimi giovani italiani attirati dal metodo di progettazione in Danimarca e dall’attenzione che qui si ha nel seguire gli allievi. Gli studenti italiani non solo si sono dimostrati validi dal punto di vista tecnico, ma sono stati anche molto flessibili nell’apprendimento.
Una flessibilità dunque apprezzata in Danimarca. Cosa, invece, può imparare l’Italia dalla società danese?
La flessibilità italiana è una qualità ben riconosciuta, non solo nel mondo dell’architettura: in Danimarca ci sono imprenditori italiani che lavorano molto bene e con grande inventiva, dimostrando un’ottima capacità nel trovare soluzioni flessibili e innovative. Questo fa da contraltare alle difficoltà e alle rigidità, ben percepite anch’esse in Danimarca, del sistema burocratico e politico italiano. I danesi, di mentalità molto più schematica, hanno invece un modello pubblico molto pragmatico, basato sul dialogo, sul consenso e sulla collaborazione fra i diversi livelli della società. È un modello a cui l’Italia può sicuramente guardare per valorizzare ancor di più le sue tante eccellenze.
Anna Maria Indrio è cresciuta a Roma. Nel 1965 si trasferisce in Danimarca ed è ammessa all’Accademia di Architettura di Copenaghen. Nel 1991 diventa partner dello studio C.F. Møller e, nel 2018, dello studio Norrøn dove lavora sui temi legati all’ospitalità e su proposte per musei e centri visitatori. Tra i suoi progetti l’ampliamento del Museo Statale d’Arte di Copenaghen, il museo di Vendsyssel nel nord dello Jutland, l’ampliamento del Museo “Arken” a Copenhagen. A Londra ha curato l’ampliamento del Museo di Storia Naturale; in Italia la trasformazione e il restauro di una parte della Certosa e del Museo Storico di San Martino a Napoli. Premiata con l’Ordine dei Cavalieri della Corona danese, Anna Maria Indrio é membro della direzione dell’International Council of Museums (ICOM)