L’Italia deve ancora cogliere le opportunità dell’Internet of Things (IoT), elemento chiave in quella rivoluzione dei processi produttivi nota come industria 4.0. Per recuperare la distanza rispetto ad altri Paesi è fondamentale una visione del mercato di domani, unico modo per adeguare i modelli di business delle microimprese italiane ai requisiti della nuova rivoluzione tecnologica. Ludovico Ciferri spiega il perché al sito di Aspen.
Qual è il punto di partenza dell’Italia nell’IoT?
In base al NAC Index elaborato da Accenture per misurare l’“Industrial Internet of Things enabling factors” di una nazione il nostro Paese si trova in posizione di svantaggio rispetto ai diretti concorrenti, in particolare nel settore manifatturiero. Il quadro di valutazione dell’innovazione in Europa per l’anno 2014 vede peraltro l’Italia alla testa del gruppo definito dei cosiddetti “innovatori moderati”. I rischi che questo ritardo potrebbe comportare per l’industria italiana sono davvero alti, perché significa posizionarsi sulla strada di uscita dal G20 entro i prossimi vent’anni. Vuol dire perdere ancora più quote di industria manifatturiera poiché il passaggio dall’economia del prodotto all’economia del risultato è ineludibile per mere questioni di sostenibilità del pianeta. Lo sforzo che spetta all’Italia lungo queste direttrici è, dunque, maggiore rispetto ad altri Paesi concorrenti, e occorre capire quali strategie siano più efficaci per affrontarlo. Le difficoltà sono innanzitutto di natura economica, perché è uno sforzo che necessita lungimiranza, pazienza, ma anche vision verso quello che potrà essere il mercato di domani.
Quali i ritardi più evidenti? Il Giappone può essere un esempio?
Infrastrutture digitali, alfabetizzazione digitale, preparazione della classe imprenditoriale, difficoltà nel portare avanti processi di cambiamento e d’innovazione sono i campi in cui si nota maggiormente il ritardo dell’Italia rispetto a Paesi più all’avanguardia. Nello specifico del Giappone, nazione in cui vivo e lavoro ormai da quindici anni, alcune lezioni sono certamente esportabili per il nostro Paese.
Alcune positive, come il livello di investimenti in ricerca e sviluppo (R&S). Altre negative come la difficoltà di portare avanti processi di cambiamento e di innovazione. Per quanto riguarda le lezioni positive la principale è rappresentata appunto da una quota di PIL destinata alla R&S superiore al 3%. Molto è stato scritto su come questa cifra sia conteggiata, se tenga conto di alcune partite omesse in altre nazioni. Il fatto è che, anche diminuendola, si tratta di una percentuale fra le più alte al mondo. Senza di essa difficilmente si potrebbe mettere mano alla costruzione di infrastrutture digitali robuste. Basti pensare che, in occasione del grande terremoto del 2011, le infrastrutture digitali hanno retto e tutti noi comunicavamo via Internet. Magari mancavano acqua ed elettricità anche in alcune parti di Tokyo – posta a trecento chilometri a sud dell’epicentro – ma Internet non è mai caduto, facendo vivere il terremoto in diretta nel mondo.
Cosa può fare l’Italia per recuperare terreno nelle applicazioni industriali dell’IoT?
Nello specifico è necessario immaginare come trovare spazio per un nuovo modello produttivo in un’industria come quella italiana che conta circa il 95% di microimprese con meno di 10 dipendenti e con fatturati annui che non permettono grandi investimenti in R&S. In questo senso l’Italia deve innanzitutto scegliere quale modello seguire: quello statunitense, dove il ruolo dello Stato è principalmente di semplificare le attività di sviluppo; o quello tedesco, dove si ipotizzano investimenti statali nella ricerca e nell’innovazione. Per portare la quota manifatturiera italiana dall’attuale 15% del valore aggiunto al 20% entro il 2030 bisogna infatti arrivare a circa 8 miliardi di investimenti annui, puntando su piattaforme digitali, software, robotica, gestione dei big data e sistemi cloud.
In che modo aumentare la competitività e sfruttare al meglio le opportunità dell’IoT?
Dobbiamo partire da una premessa: per quanto paradossale possa sembrare, la qualità della ricerca informatica in Italia è alta, eppure il Paese patisce un ritardo notevole rispetto ai propri concorrenti. Il ritardo non è, infatti, dovuto a un problema di qualità della ricerca, o più in generale di formazione come si sente spesso erroneamente ripetere. Bensì di ambiente sociale non predisposto all’innovazione, di scarsa alfabetizzazione digitale, ma soprattutto di classe dirigente imprenditorialmente impreparata. Bisogna, quindi, aiutare le aziende a recuperare terreno prima di tutto nella mentalità imprenditoriale.
Il ritardo italiano nell’adozione dell’IoT è platealmente un problema di innovazione di processo, se non più spesso di business model che non vengono adeguati alle mutate condizioni del mercato e di conseguenza ai nuovi prodotti. Peraltro di ricerca vera e propria per l’IoT ce n’è ormai poca da fare, altrimenti non potremmo essere alla vigilia di un’implementazione su larga scala che si basa su tecnologie consolidate. Non serve fare ricerca tecnologica, semmai ricerca di mercato, per capire, ad esempio, che in Italia, per attecchire, l’industria 4.0 deve avere una declinazione diversa da quella tedesca: ovvero puntare non solo e subito all’automazione, ma mirare alla trasformazione dei modelli di business, che in qualche modo anticipino la trasformazione da “prodotto a servizio” e da “servizio a risultato”. In questo gli imprenditori italiani potrebbero avere un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti stranieri più strutturati e meno inventivi. Certo bisogna saper osare.
Ludovico Ciferri è presidente di Advanet, azienda giapponese specializzata nello sviluppo e produzione di computer miniaturizzati ad elevate prestazioni. Insegna inoltre Mobile Business Strategy e Private Equity & Venture Capital alla Graduate School of Management dell’International University of Japan