Un ingegnere che lavora a fianco dei chirurghi per creare tessuti cellulari da impiantare senza rigetto. Ivan Martin membro della comunità “I protagonisti italiani all’estero”di Aspen Institute Italia, è professore di Ingegneria dei tessuti presso il dipartimento di Biomedicina dell’Università di Basilea.
Prima di arrivare in Svizzera, passando per il Mit di Boston, si è formato in Italia dove, sottolinea, esiste un “potenziale creativo” da valorizzare . Del resto – ha spiegato al sito di Aspen – “la creatività è la sorgente della scienza”.
Un ingegnere che lavora in ospedale. In cosa consiste la sua ricerca e quali sono le possibili applicazioni?
La ricerca sulla coltura di cellule in ambienti tridimensionali ha un aspetto applicativo che permette di dare un contributo in campo clinico. Qui a Basilea, ad esempio, abbiamo già trattato cinque pazienti per la ricostruzione della cartilagine, dopo aver messo in piedi le infrastrutture e il sistema di controllo di qualità necessari. Lavorare con i chirurghi è stimolante: quello che noi scienziati pensiamo sia rilevante, infatti, non lo è sempre dal punto di vista clinico.
La ricerca, inoltre, ha preso anche forma in una start-up, Cellec Biotek, che si occupa dello sviluppo di bioreattori per colture cellulari, ovvero dispositivi che permettono di generare tessuti in modo controllato, automatico e standardizzato. Questa esperienza sta portando alla creazione di un network internazionale in cui i diversi team apportano le proprie competenze. Siamo convinti, infatti, che il successo di ogni gruppo nel settore della medicina rigenerativa possa e debba trasformarsi nel successo del settore stesso, aprendo così nuove prospettive scientifiche e terapeutiche in un campo che è ancora in una fase iniziale di sviluppo .
Dall’ingegneria alla medicina rigenerativa, quale percorso professionale l’ha portata all’Ospedale universitario di Basilea?
Ho studiato ingegneria elettronica e, sempre a Genova, ho ottenuto un dottorato in ingegneria biomedica, con un programma inserito negli aspetti biologici della medicina rigenerativa. In seguito, per recuperare anche un po’ il background ingegneristico, ho passato tre anni nel laboratorio del MIT di Boston occupandomi di bioreattori per colture di tessuti ingegnerizzati. La mia ricerca continua ora all’Ospedale universitario di Basilea dove mi concentro sullo studio del funzionamento di cellule in ambienti tridimensionali e sulla traslazione in clinica dei tessuti così derivati.
È vero che i ricercatori italiani hanno un alto livello di preparazione? Qual è stata la sua esperienza durante il lavoro in team con colleghi di altri paesi?
La preparazione sia dell’università sia del dottorato è stata per me di altissimo livello. Ho potuto toccarlo con mano al MIT: all’inizio mi interfacciavo timidamente con gli altri colleghi, poi ho scoperto di saperne, in alcuni casi, più di loro. In Italia, certo, ci vorrebbe un maggiore attenzione all’interdisciplinarietà, uno sforzo per far lavorare insieme profili diversi su progetti comuni. Questa mancanza è però compensata da una certa propensione alla creatività e flessibilità, che fornisce la capacità di trovare soluzioni innovative.
L’università italiana può vantare punti di forza? Come valorizzarli?
Faccio parte di diversi progetti europei e ho modo di lavorare con partner italiani. Continuo a trovare un’enorme creatività nell’università italiana che riesce spesso ad essere pioniera in diversi campi. La creatività è fondamentale perché, in fondo, è la sorgente della scienza. La parte più difficile è tuttavia trasformare questa creatività in sistema e implementarla in progetti di medio e lungo termine, sia a livello accademico che di traslazione industriale.