Il nostro “petrolio”, una “miniera d’oro”, un “giacimento” in larga parte sottoutilizzato: nella lista (lunga) delle potenzialità ancora inespresse del Paese e delle relative metafore, da decenni il turismo occupa stabilmente un ideale “podio delle occasioni mancate”, assieme alla cultura e al paesaggio, cui peraltro è evidentemente legato a doppio filo. Se ne discute nel dibattito pubblico, si analizzano le performance in termini di attrattività e competitività del settore, si focalizzano punti di forza e di debolezza. Mai, tuttavia, a tale prolifica elaborazione concettuale conseguono un’organica strategia di sviluppo nazionale e, soprattutto, una concreta implementazione sul versante delle politiche pubbliche.
Confronti e analisi comparate, comunque, si rivelano senz’altro indispensabili per monitorare lo stato di salute del turismo italiano. Ne emerge nel complesso una situazione di sostanziale fragilità, testimoniata dalla costante diminuzione dell’incidenza del settore rispetto al PIL. Ciò, peraltro, a fronte di una generale tendenza alla crescita del turismo su scala internazionale e a dispetto della grande crisi globale. Eppure, mentre il Paese perde terreno nella graduatoria delle mete turistiche mondiali più gettonate, il marchio-Italia conserva la sua capacità attrattiva in alcuni degli asset determinanti da questo punto di vista: dall’arte alla cultura in senso lato, dalla varietà delle specificità territoriali all’ambiente. Da un lato, dunque, c’è un soft power in larga misura inattaccabile, da intendersi come il frutto di un insieme di fattori quali storia, tradizioni, paesaggio, qualità della vita senza corrispettivi al mondo. Dall’altro, c’è un hard power che, però, non esiste di fatto come tale, perché indebolito dalle molteplici criticità di un Paese che ha vissuto una modernizzazione faticosa e incompiuta: dai ritardi infrastrutturali allo sbilanciamento Nord-Sud, dalla frammentazione delle strutture ricettizie al deficit di formazione specialistica e manageriale o di aggiornamento tra gli operatori del settore. Sullo sfondo la complessità di un sistema di governo – sia tra diversi livelli istituzionali, sia all’interno della stessa amministrazione generale dello Stato – che negli anni ha finito con l’inficiare la messa a punto di una strategia nazionale realmente coordinata.
In questa prospettiva, perfino il soft power del marchio-Italia può configurarsi come un elemento ostativo per il cambiamento: una “riserva mentale” da utilizzare come alibi per rimandare all’infinito la risoluzione dei problemi, quasi che la bellezza, l’arte o la cultura potessero fungere da “generatori automatici” di sviluppo. Senza manutenzione del patrimonio, senza programmazione delle politiche, senza valutazione degli interventi. Tale capacità generatrice – seppure in passato c’è stata e benché effettivamente continui ad esserci – oggi rischia con tutta evidenza di essere non più sufficiente. Lo testimoniano le tendenze del mercato nazionale e globale abbozzate in precedenza. Lo confermano le istanze delle imprese e dei territori, sempre più esigenti nei confronti delle scelte del decisore pubblico anche in questo ambito. Inserire il turismo – o, più propriamente, i turismi – nell’agenda Italia diventa così una priorità ineludibile nell’ottica di una generale ridefinizione della vocazione economica del Paese, tanto nel breve quanto nel medio-lungo periodo.
È in questa cornice che può inquadrarsi il Piano nazionale del Turismo messo a punto dal governo e d’imminente presentazione. Strumento principe: la selettività delle scelte, con l’individuazione di poli di attrazione che possano catalizzare l’offerta e qualificarla, distinguendo, ad esempio, tra turismo di massa e turismo d’élite, adattandosi alle specificità culturali, ambientali, storiche dei territori italiani (turismi tematici), oppure sfruttando con accortezza le opportunità offerte da formidabili vincoli esterni (Expo 2015, grandi eventi, manifestazioni sportive, e quant’altro). In secondo luogo, il coordinamento tra i diversi soggetti deputati alla governance del settore e la razionalizzazione effettiva delle competenze di ciascuno (a partire, ovviamente, dalle funzioni e dalla stessa soggettività giuridica dell’ENIT). Infine – su tutto – è necessaria una vera e propria rivoluzione culturale rispetto al tema della promozione del marchio-Italia nel mondo, da collocare, sì, come un prodotto sul mercato, ma fermi restando quei requisiti di sostenibilità, cura e valorizzazione intelligente delle risorse.