Il giorno della “liberazione dell’America”, con l’introduzione di dazi ai principali partner commerciali da parte dell’Amministrazione Trump, segna un nuovo passo verso la crisi dell’ordine globale basato sulla globalizzazione. Si tratta di una crisi che non ha precedenti, caratterizzata da un disordine geopolitico e da politiche economiche frammentate o assenti, ma con cause ben identificabili.
L’affermazione troppo rapida di un sistema, quello della globalizzazione — che nasce come applicazione dell’utopia del mercatismo — è all’origine, infatti, di squilibri economici e sociali profondi. Le economie occidentali si sono trovate in pochi anni a importare, insieme alle merci, anche povertà per i lavoratori dell’industria. A questo fenomeno si è tentato di dare una risposta di mera natura finanziaria che si è dimostrata inefficace. Oggi la storia, di cui si è decretato a lungo la fine, è tornata a prendersi la scena, aumentando il rischio che i confini non più attraversati dalle merci vengano percorsi dagli eserciti.
In questo contesto, più che uno strumento di politica commerciale, i dazi americani sembrano costituire un tassello di una strategia dello shock, finalizzata a rinegoziare i rapporti globali. Resta l’incognita sulle conseguenze di tale scelta, perché le ripercussioni sui mercati azionari — e quindi su una parte importante della popolazione statunitense che affida ai fondi pensione la propria previdenza — minacciano la variegata coalizione che ha appoggiato la rielezione di Donald Trump.
Le misure approvate e le ulteriori incertezze all’orizzonte rappresentano in ogni caso uno scenario problematico per l’Europa, anche per una serie di scelte errate che negli anni passati hanno minato la competitività industriale del continente. Agli errori di politica industriale si è accompagnata l’assenza di una vera politica energetica, un fattore che appesantisce ulteriormente l’attività delle imprese.
L’Unione Europea è chiamata a far fronte alle sfide attuali comprendendo, in primo luogo, che l’autonomia strategica in ambito industriale non può prescindere dall’energia come elemento di sicurezza. In questo quadro, il concetto di sicurezza energetica deve evolversi da semplice riduzione della vulnerabilità a una vera e propria “assicurazione” del sistema di fronte ad alcuni rischi principali, legati al cambiamento climatico, alla continuità e affidabilità dell’approvvigionamento, alla volatilità dei prezzi.
L’Italia si trova in una posizione particolarmente delicata proprio per i costi energetici, considerevolmente più alti rispetto agli altri competitor internazionali ed europei. Particolarmente interessante è, al riguardo, il caso della Spagna che, partendo da un livello di prezzi dell’energia simili a quelli italiani, è riuscita in un decennio a ridurre i costi di approvvigionamento grazie a importanti investimenti sulle rinnovabili (oggi al 60% del mix rispetto al 40% circa italiano) e alla base offerta dal nucleare.
Quest’ultima fonte è protagonista di un rinnovato interesse, anche da parte dell’opinione pubblica italiana: dopo l’esito negativo dei due referendum del 1987 e del 2011 — avvenuti, è importante notare, a seguito di incidenti come quelli di Chernobyl e Fukushima — ora è presente una maggioranza relativa a favore della reintroduzione dell’atomo nel mix energetico. Si tratta di una base importante su cui costruire il dibattito pubblico, a cui si deve affiancare un’informazione attenta sulle prospettive di sicurezza e flessibilità garantite dalle nuove tecnologie. In particolare, i reattori modulari (SMR) di quarta generazione cambiano lo scenario perché più piccoli; più economici, visto che sono realizzati su scala industriale; più sicuri e più semplici da realizzare, perché in grado di generare una notevole riduzione delle scorie.
In attesa delle prospettive offerte dalla fusione, le nuove tecnologie di fissione nucleare rimangono, insomma, un elemento importante da considerare per un portafoglio energetico bilanciato, soprattutto di fronte alle sfide poste dalla crisi climatica e dall’aumento della domanda di energia a livello globale. Questa tendenza è guidata dalle economie emergenti che, a causa di un mix energetico sbilanciato sugli idrocarburi, stanno provocando anche una consistente crescita delle emissioni di CO2. Eppure, le responsabilità delle economie più mature, che mantengono emissioni molto elevate se si considerano i dati pro-capite, non sono secondarie. A tale riguardo un capitolo particolare riguarda la transizione digitale – con l’espansione dei data center – che impone una crescita esponenziale della domanda energetica: per soddisfarla, entro il 2026, sarà necessaria una produzione aggiuntiva pari al consumo del Giappone.
Anche per questo, dopo il rapporto sul riscaldamento globale approvato dall’IPCC nel 2018, il mondo ha visto un rilancio del ruolo del nucleare nella lotta al cambiamento climatico. Alla COP28 si è chiesto di triplicare la capacità installata e gli impegni presi dai diversi Paesi vanno in questa direzione: gli scenari dell’AIEA prevedono, infatti, un aumento consistente della potenza installata che, dai 373 GW di oggi potrà arrivare nel 2050 fra i 500 e i 900 GW.