Made in Italy, un brand anche per la scienza
Intervista a Giorgio Basile
La ricerca scientifica Made in Italy viene apprezzata nel mondo e vale quanto l’abbigliamento e il design. La stampa internazionale non dimentica nei propri articoli le eccellenze italiane, ed è soprattutto l’idea di creatività associata al marchio Italia ad aumentare il valore delle produzioni, anche in settori diversi da quelli tradizionali dell’export nazionale: Giorgio Basile, presidente di Isagro (gruppo dell’agropharma che vende in 70 mercati e ha uffici in una decina di Paesi) spiega i vantaggi – e gli svantaggi – che incontra sul proprio cammino uno “small global player” italiano.
Quanto conta per il vostro business l’immagine Italia sui media internazionali?
Il marchio Italia è sicuramente un aiuto, non soltanto per la moda o per il design. I nostri prodotti per l’agricoltura, ad esempio, hanno sui mercati internazionali – penso soprattutto a quelli orientali – un price premium. E questo perché l’acquirente dà valore a ciò che è pensato, disegnato, prodotto in Italia. Non è solo l’estetica: si tratta di un valore aggiunto che riguarda un vasto numero di settori, dalla meccanica di precisione alla ricerca scientifica. Per questo in Isagro rivendichiamo una creatività italiana che non è presente solo nella moda: del resto il nostro payoff è “Italian Creativity for plant health”
L’Italia per il mondo resta la culla della cultura artistica e umanistica. Significa non avere spazio per le eccellenze tecnologiche e scientifiche ?
Direi proprio di no. Nel mondo sono assolutamente riconosciuti la qualità e il valore dei nostri manufatti, ma viene anche apprezzato l’alto rendimento della ricerca italiana: se mettiamo a numeratore il risultato e al denominatore l’investimento, vediamo che i laboratori italiani danno risultati ottimi, con una produttività molto elevata. Questo permette a Isagro, pur essendo un gruppo di dimensioni ridotte rispetto ai grandi player globali, di fare scoperte e non solo ricerca per migliorare i prodotti esistenti. Tuttavia, se i prodotti italiani vanno in giro per il mondo senza problemi, maggiori ostacoli sono presenti quando si tratta di attrarre capitali. Dobbiamo infatti distinguere l’atteggiamento del cliente che, nel proprio Paese, compra prodotti italiani, da quello dell’investitore che decide di puntare capitali sul mercato italiano. In questo ultimo caso esistono ancora diverse criticità.
A quali criticità si riferisce? Come superarle?
Gli aspetti che frenano gli investimenti in Italia sono soprattutto i tempi e le incertezze della giustizia, oltre alle lungaggini nell’approvazione di progetti di investimento. L’altro grande problema è ovviamente la criminalità organizzata. Il fatto che esista un handicap per le aziende italiane al momento di attrarre investimenti non vuol dire però che queste aziende non riescano poi a convincere gli investitori quando si entra nel merito del business.
In Isagro, per esempio, abbiamo stretto lo scorso anno un accordo di partnership industriale con un operatore americano entrato con una quota di minoranza in una società italiana. Solo un mese dopo, una società giapponese operante su scala mondiale ha acquisito da noi un diritto di licenza riconoscendo una cifra importante legata allo sviluppo di una nuova miscela fra un loro e un nostro prodotto. Infine, non possiamo dimenticare gli investitori esteri che hanno sottoscritto il nostro aumento di capitale lanciato lo scorso maggio. In tutti e tre i casi abbiamo superato le difficoltà del Paese e abbiamo registrato inflow di risorse finanziarie.
È dunque difficile attrarre investimenti sul mercato italiano. Esistono allora strumenti alternativi per patrimonializzare le tante medie aziende italiane?
Parto da una mia idea, concepita nel 2006 e approvata da Consob nel 2008: le azioni sviluppo. Ancora oggi sono poco diffuse e il mercato non sembra averle comprese e apprezzate. Si tratta tuttavia di uno strumento molto semplice: queste azioni non danno diritto di voto, visto che si rivolgono a società con soggetto controllante dove questo diritto già non viene esercitato di fatto dagli azionisti di minoranza; danno, quindi, all’imprenditore la possibilità di raccogliere capitali senza il timore di perdere il controllo. Le minoranze, in cambio, ottengono un extra-dividendo e la conversione automatica in azioni ordinarie, in caso di Opa o, comunque, quando l’azionista di maggioranza perde il controllo. È un meccanismo vantaggioso per tutti che spero possa essere apprezzato in futuro. Del resto si tratta di uno strumento tagliato su misura per aiutare la raccolta di capitali e rafforzare le tante imprese del quarto capitalismo italiano.