In meno di sei mesi l’amministrazione Trump ha ridefinito le regole del gioco economico e politico globale. E oggi l’Europa è chiamata a reagire in modo efficace alla politica di un presidente che porta avanti un approccio commerciale basato sulla disruption a colpi di decreti esecutivi, quasi uno al giorno dall’insediamento. Tutto questo generando un persistente clima di incertezza — non dissimile dalla fog of war che accompagna i conflitti armati — grazie alla valanga di messaggi contrastanti di cui inonda la rete e in particolare il suo social network Truth, ben 2.500 post da quando è in carica.
Il centro di questa linea d’azione politica, deliberatamente discontinua, è oggi rappresentato dai dazi. Nella logica di Trump questi non sono un mero strumento commerciale, ma leve polifunzionali: le tariffe mirano ad aumentare le entrate pubbliche, proteggere settori strategici, incentivare la reindustrializzazione e vengono considerate come un elemento in grado di rafforzare la sicurezza nazionale. È un approccio coerente con l’idea, fortemente radicata nell’amministrazione americana, che la globalizzazione abbia penalizzato ampi strati della popolazione statunitense e che sia necessario intervenire per compensare le perdite. In questa visione, la manifattura è il simbolo di un’economia da ricostruire.
In un tale scenario, l’Europa è chiamata a una riflessione strategica, ancora più difficile perché l’aumentare dell’incertezza rende complesso formulare analisi e anticipare possibili decisioni. Gli Stati Uniti, in ogni caso, non sembrano comportarsi più come la “nazione indispensabile” attorno a cui si organizzava l’ordine internazionale. Il loro atteggiamento può essere visto come quello di una “superpotenza estrattiva” che tende a massimizzare i propri vantaggi nei rapporti commerciali e politici con alleati e con altri Paesi. Per un’Unione Europea fondata su logiche cooperative e a somma positiva, questo rappresenta un cambio di paradigma difficile da metabolizzare.
Una visione così netta e negativa può anche essere giudicata eccessiva. Si può infatti guardare alle richieste dell’amministrazione Trump come a un atteggiamento risarcitorio, finalizzato a frenare il free riding nei confronti degli Stati Uniti. L’idea è che l’Europa abbia beneficiato per troppo tempo di vantaggi ingiustificati in diversi campi e debba ora contribuire in misura maggiore. La linea d’azione di Washington può, poi, essere vista, in maniera ancora più ottimistica, come una proposta per la costruzione di un nuovo rapporto più stabile ed equilibrato su cui basare il futuro fra le due sponde dell’Atlantico.
L’interpretazione sulle motivazioni alla base delle misure decise dall’amministrazione americana influisce sulle strategie finalizzate ad affrontarle: un mix che va dal perseguimento del dialogo a un approccio esclusivamente difensivo. Le opinioni su questo tema possono differire, ma è indubbio che il primo passo cui l’Europa è chiamata è quello di mettere da parte l’attendismo e le divisioni, e pensare una risposta lucida e strutturata. In primo luogo, occorre attrezzarsi per utilizzare con rapidità strumenti efficaci come il meccanismo anti-coercizione, che consente una reazione tempestiva a pratiche commerciali aggressive, comprese quelle delle grandi aziende digitali. L’UE dispone, infatti, di risorse negoziali non trascurabili che deve valorizzare: basta pensare che le importazioni americane di beni semilavorati dall’UE sono il doppio di quelle europee dagli Stati Uniti.
Eppure nella sua reazione l’Unione non può pensare solo al piano tattico. Il confronto con l’America mette nuovamente in evidenza debolezze strutturali del progetto europeo. La frammentazione e la tendenza a sovra-regolamentare rappresentano un freno alla competitività dell’industria, che rimane alla base del modello sociale europeo. Ha inoltre conseguenze pesanti anche sul settore finanziario: la normativa bancaria di Basilea 3, ad esempio, incide per circa il 15% sui costi operativi degli intermediari continentali, mentre Washington ne ha rinviato l’applicazione. Anche dal punto di vista dei mercati i segnali non sono incoraggianti: l’America mostra una capacità di attrarre capitali e di stimolare l’innovazione che l’Europa, in cui la crescita dei listini continua ad essere trainata soprattutto dalla spesa pubblica, non ha. A tutto questo si affianca la decisione europea di privilegiare la concorrenza fra Borse e non lavorare per una grande piattaforma di scambi continentale. È l’ennesimo segnale di debolezza sistemica che richiede un ripensamento delle politiche. L’Unione del resto sembra costruita su un’architettura normativa del “massimo comune denominatore” che spesso coincide con le regole più restrittive, rendendo difficile l’emergere di un vero mercato interno efficiente.
Insomma, di fronte a una potenza americana che non esita a usare la forza economica come leva geopolitica, l’Europa deve uscire dalla logica dell’attendismo. Serve un cambio di passo: una visione autonoma, basata su capacità analitica, assertività negoziale e coesione interna. Solo così l’UE potrà affrontare le sfide poste da una nuova configurazione del potere globale giocando un ruolo nell’accidentato e incerto processo di trasformazione del nuovo ordine internazionale